I nostri malesseri

Un giorno qualsiasi, di un mese qualsiasi, di un anno qualsiasi.
Un parco, anche lui qualsiasi.
Lo scampolo di sole caldo, nel primo pomeriggio di un inverno anomalo, ha risvegliato nei bambini la voglia di trincerarsi in un parco.
Urlano, giocano, si inseguono, si divertono.
Non hanno fronzoli loro, esprimono i propri sentimenti in totale spensieratezza.
I cuccioli di uomo, gli unici capaci di quella forza interiore e indomabile, sono riusciti nell’improbabile compito di far riemergere gli adulti dal torpore delle proprie case.
Rintanati nelle comodità  e protetti da milioni di alibi con i quali giustifichiamo l’ozio quotidiano, siamo solitamente incapaci di sollevare la testa per guardare cosa succede intorno a noi.
Non oggi, non in questo minuscolo angolo di terra.
Le mamme parlottano tra loro.
I nonni sorvegliano con aria greve i futuri eredi.
I papà , troppo assuefatti dalla tecnologia, ignorano tutto ciò possa distrarli, adducendo, come motivazione, la necessità  di dare ai pargoli la loro apparente libertà .
Sedute sulla panchina più esterna di questa area protetta, due amiche.
Sono totalmente ricoperte dall’impalpabile calore del giorno di perielio.
Parlano.
Si confidano.
Servono su un piatto d’argento le proprie emozioni, i sentimenti, gli stati d’animo.
Lo facciamo tutti, chi più, chi meno.
Lo fanno queste due donne, o meglio, lo fa una delle due.
È evidente, dall’aria corrucciata del viso e dalla forza che mette nello stringersi su se stessa, ad essere lei quella bisognosa di liberarsi dai demoni aggrappati alle piccole spalle.
L’altra annuisce, segue con attenzione l’immensa mole di parole provenire dalla direzione opposta.
Di tanto in tanto, risponde, espone il suo punto di vista, cambia involontariamente le espressioni del viso.
Sembra una partita a scacchi truccata, dove uno dei due avversari fa di tutto per far vincere l’avversario.
Pur essendo lontano riesco a cogliere quella dinamica vista e provata da tutti noi milioni di volte.
Nel momento in cui qualcosa ci opprime, sentiamo la necessità  di liberarcene e lo facciamo parlando, o almeno dovremmo farlo.
Perché tutto ruota sulla volontà  e il coraggio di provarci, coraggio che il più delle volte viene meno.
Usiamo sotterfugi.
Ci facciamo vedere tristi per mettere alla prova l’empatia di chi abbiamo di fronte, ma abbandoniamo la presa mentre siamo appesi sul ciglio di un burrone e ci viene offerta una mano come appiglio.
Il timore di essere quelli sbagliati, ridicoli, inopportuni frena ogni possibilità  di confronto.
L’eterna lotta tra il riuscire a risolvere autonomamente i propri malesseri, ed il riconoscere di poterlo fare solo dopo averli vomitati in faccia a qualcuno che abbia voglia di subirli, riempie le giornate di tutti noi.
Chissà  perché sentiamo la necessità  di dimostrare a noi stessi di essere così autonomi, per accorgerci dopo, di esserne totalmente incapaci.
Perché riusciamo a complicare tutto e non facciamo come i bambini?
Dovremmo imparare da loro.
Anzi no, dovremmo recuperare la memoria perduta degli anni in cui eravamo noi quei bambini.

Io o tu?

Domenica pomeriggio. 
È inverno, fa freddo.
Il freddo, oltre a rallentarne i movimenti, rallenta anche i pensieri, le idee, le voglie.
Smaltita l’euforia del sabato sera, si decide di trascorrere questo tempo (che ci traghetta dall’ora del riposo all’ora degli impegni lavorativi) all’interno del guscio protettivo di casa.
Anche io ho preso questa decisione.
Annoiarsi, a volte, è l’unico modo per riposare davvero.
Il sole è quasi tramontato. 
Dalle finestre fa capolino un meraviglioso caleidoscopio di riflessi colorati.
Gli ultimi raggi della giornata, infranti sulle piccole nuvole sparse senza alcun senso nel cielo, regalano uno dei tanti dipinti offerti incondizionatamente dalla natura.
Tutto all’apparenza sembra perfetto, quando una telefonata rompe l’idillio.
“Michi, ho bisogno di parlare, vieni.”
Non una domanda, lo raggiungo.
Arrivato, lo vedo seduto nell’ultimo tavolo a sinistra di questa piccola sala circondata da grandi vetrate.
I divanetti in pelle, verde scuro, vuoti, lo isolano dai pochi avventori presenti.
Le luci calde sulle pareti, colorano l’ambiente con un insolito maquillage vintage. 
In mano un bicchiere, vino, rosso.
Il viso triste, cupo, assorto.
Gli occhi bassi, a fissare il liquido innanzi a lui, tradiscono i suoi pensieri nascosti.
Mi siedo di fronte, lo fisso.
Un fiume in piena mi travolge.
Una valanga disordinata di parole, scaccia violentemente i miei pensieri frivoli del momento.
Il racconto, procedendo a briglia sciolta, mi permette di comprendere l’accaduto, ma soprattutto mi permette di comprendere cosa lo tormenta.
Una frase su tutte lo riassume.
Per cercare di non mentire, ha deluso nuovamente una persona importante.
Ecco, tutto ruota intorno a questo.
Un duopolio in cui tutti ci siamo trovati almeno una volta.
Mentire o deludere?
Scegliere il bene interiore proprio o quello dell’altro?
Perché alla fine la scelta ricade sempre sulla stessa domanda.
Decidere chi è più importante in quel momento:
io o tu?

Il peggio di te

Sono giornate gelide.
Monsieur inverno si è totalmente e incondizionatamente impossessato di ogni angolo.
Ha steso la sua immensa coltre, incurante di chi o cosa potesse essere schiacciato dalle sue pesanti mani.
Si stenta a riconoscere quel mondo estivo, in cui i giorni erano pieni di vitalità , forza e voglia di vivere, alimentati dall’incessante opera del Dio Apollo. 
Anche lui ha preso la sua decisione: è arrivato il momento di impegnarsi meno.
Tutto è cupo, grigio, nascosto, quasi furtivo.
La natura ha perso i suoi colori.
Gli uomini si nascondono dietro i loro avvolgenti e caldi vestiti, ma i loro volti trasudano freddo.
Condividono con l’inverno lo stesso mancato tepore.
Siamo lì, con gli occhi bassi, preoccupati di poter riscaldare con un sorriso un malcapitato sconosciuto incrociato per caso.
Anche la coppia di fidanzati a pochi metri da me ha la stessa espressione.
Si tengono per mano, ma i loro visi sono distanti.
Sono vicini con il corpo, ma la loro anima non si sovrappone.
Non più.
I loro occhi descrivono, come un libro aperto, ogni pensiero.
Sono tristi, arrabbiati, lontani.
L’alchimia di una volta svanita.
I giorni felici un lontano ricordo.
Il piacere di essere insieme una inevitabile ipocrisia.
Parlano a voce bassa.
Non vogliono far trapelare i motivi del loro dissentire.
Ma i movimenti del corpo non mentono: sono bruschi, stizziti quasi innaturali.
Litigano.
Mi sembra di essere affacciato ad una finestra.
Vederli, ricorda un incontro di box in cui i due pugili si scambiano colpi ben assestati.
All’improvviso lei lascia la mano di lui.
L’allontana violentemente.
Il suo viso assume i connotati tipici della rabbia.
Gli sussurra qualcosa nell’orecchio.
Anche il viso del giovane ragazzo cambia, gli occhi si abbassano, le labbra si inarcano disegnando una piccola parabola. 
Non replica.
È come se un pugno lo avesse colpito all’improvviso, non si aspettava quel colpo andato a segno.
La battaglia è terminata.
Può solo andare via, abbandonare lo scontro.
Ed è in quel momento che riesco ad ascoltare la sua ultima frase:
“Hai dato il peggio di te”.
Va via.
Riecheggia ancora quella frase dentro di me.
“Hai dato il peggio di te”.
Se ci pensiamo, quel ragazzo ha ragione. 
Siamo sempre pronti a dare il peggio di noi con le persone a cui vogliamo bene.
Siamo sempre pronti a far prevalere i nostri egoismi con chi sappiamo ci perdonerà  tutto.
Siamo fin troppo bravi a vincere battaglie contro chi non vorrà  mai battersi con noi.

Immerso in se

Porto di Campomarino di Maruggio (TA)

Immerso nel suo silenzio, ascolta l’infrangersi delle onde del mare contro i possenti blocchi di cemento. 
Il profumo della brezza lo avvolge come un mantello invisibile. 
Il sole ancora caldo, mentre inizia il suo lungo tuffo nell’acqua cristallina, lo coccola cantando la sua melodia preferita. 
Nulla intorno a lui se non se stesso.

Corsi e ricorsi

Giambattista Vico

Giambattista Vico è stato il creatore della teoria dei “Corsi e ricorsi storici”.


Sosteneva:

“alcuni accadimenti si ripetono con le stesse modalità , anche a distanza di tempo e ciò non avviene per caso, ma per un disegno della Divina Provvidenza”.


Questo per dire che a volte sembra essere così, e tendenzialmente non è un male.


Un male lo diventa quando il “ricorso storico” rappresenta fatti vomitevoli di persone ipocrite, false, meschine.


Quando il vile si erge a puro di spirito giudicando il prossimo con durezza, ma “ricorre”, nascosto nell’oscurità , il comportamento miserabile e spregevole.


Quando il povero di spirito è terrorizzato dal dover subire una condotta che egli stesso fa di tutto per praticare e mettere in atto, perché ne è soggiogato, e non può fare a meno di farlo “ricorrere” più e più volte.


Caro Giambattista la tua teoria (forse esatta) dovrebbe abituarci alle brutture, ma il disgusto per questi accadimenti è così imponente, che non si può fare a meno di rabbrividire dinanzi all’obbrobrio della mediocrità  di tali esseri immondi.

Ascolta

Quando sei in riva al mare, c’è un momento, non appena il sole tramonta, in cui tutto si ovatta.
Dura pochi minuti.
Se chiudi gli occhi e provi ad ascoltare, percepirai la gioia dei bambini e dei loro giochi, la spensieratezza degli amici e dei loro scherzi, gli sguardi di intesa di una giovane coppia e dei loro sorrisi.
E’ in quel preciso momento che il mare ti svuota di ogni tensione e preoccupazione, regalandoti la pace, la serenità  e la tranquillità  di cui si ha terribilmente bisogno.

Operazione Aemilia

Recensione del libro di Sabrina Pignedoli – Operazione Aemilia – Come una cosca di ‘ndrangheta si è insediata al nord – con la quale ho partecipato al concorso “Premio Estense Digital 2016”

Il libro che aiuta a comprendere come si muovono le mani della ‘ndragheta.

Sabrina Pignedoli, collaboratrice Ansa e redattrice del Resto del Carlino, si specializza presso la scuola di giornalismo di Bologna dove nel 2009 diventa giornalista professionista scrivendo di cronaca nera e giudiziaria. Non fa in tempo ad occupare la scrivania che nel 2010 si scontra con le carte dell’operazione Pandora, un’indagine della DDA di Catanzaro che cominciava a mettere in luce la delocalizzazione degli affari della ‘Ndrangheta nel Nord Italia, ma soprattutto in Emilia Romagna. 
Lo spirito giornalistico innato e la voglia di capire questo fenomeno, finora a lei sconosciuto, la portano a interessarsi e scrivere a tempo pieno di ‘ndrangheta.
Da qui e con l’operazione Aemilia dell’antimafia di Bologna nasce la prima fatica letteraria della Pignedoli, alla quale dà lo stesso titolo (Operazione Aemilia – come una cosca di ‘ndrangheta si è insediata al nord),  Imprimatur editore, (casa editrice generalista di Reggio Emilia).
Erroneamente ci si aspetterebbe la solita raccolta e pubblicazione di atti di una delle tante inchieste italiane. Invece, l’autrice riesce a scrivere “un romanzo” usando un tono a tratti sarcastico, senza però abbandonare il rigore analitico di cui questi racconti necessitano. 
Dalle prime righe prende forma un intreccio (sapientemente sbrogliato) di considerazioni personali, atti d’inchiesta, riferimenti a eventi passati, personalità e luoghi strettamente collegati che portano il lettore ad immergersi in un mondo che ha sempre visto, immaginato e relegato lontano dalla: “anonima città a misura d’uomo …omissis… la mafia a Reggio Emilia non c’è: nessuno la vede, nessuno la riconosce.” (p. 12), ma che in realtà è vicina a lui, vive con lui, vive di lui. 
La cosca Grande Aracri (di cui tratta l’inchiesta e il libro) “sanguinario gruppo criminale della ‘ndrangheta di Cutro (Crotone)” (p. 11”) in 32 anni di attività è riuscita a infiltrare i propri affari in ogni angolo pubblico e privato e lascia stupefatti lo scoprire che a Reggio Emilia sono gli imprenditori che cercano la ‘ndrangheta e non viceversa sedendo al loro tavolo e facendo tranquillamente affari con loro. 
Proprio questo ha dato alla cosca la forza di radicarsi sul territorio e agire così indisturbati per moltissimi anni.
La lettura continua con un moto di rabbia quando si scopre che il sodalizio criminale vede nella catastrofe del terremoto emiliano del 2012 un’opportunità di guadagno; la Pignedoli scrive “Ridono perché pensano già alla ricostruzione. Loro non hanno morti da piangere” (p.29).
Ovviamente in questa rete non manca nessuno, si va dal semplice operaio che sfrutta la cosca per lavorare, fino alla massoneria, passando dalla politica alla religione, nessuno escluso. Vengono definiti “prostituti professionali”. Dei colletti bianchi la maggiore esponente diverrà Roberta Tattini che imparerà a conoscere la cosca, i meccanismi e a trarne ampio beneficio, pur sapendo con chi ha a che fare. Si noti che il boss è definito “sanguinario”, ma “gli scrupoli etici sono andati fuori moda e lei la moda l’ha sempre seguita” (p.102).
Un nuovo aspetto che l’autrice fa emergere è che “In Emilia la ‘ndrangheta punta sul consenso sociale” (p. 23) e questa è una svolta per l’organizzazione criminale in quanto, sfruttando canali finora mai percorsi, cerca il consenso mediatico dando all’opinione pubblica un’immagine di sé purificata. Usando le parole dell’autrice “un imponente e organizzato tentativo di condizionamento dell’opinione pubblica attraverso i media, ricorrendo a trasmissioni pilotate, interviste, addirittura conferenze stampa (p. 118)”. Questa campagna mediatica viene gestita da Nicolino Sarcone (uomo “incapace di mettere insieme due parole” p.123”) referente di Grande Aracri, circondato da molti collaboratori tra cui Marco Gibertini (giornalista professionista) successivamente arrestato e sospeso dall’albo (la Pignedoli lo definisce il “pr” della cosca), procacciatore d’affari e addetto al repulisti dell’immagine del sodalizio criminale. 
Andando avanti con la lettura è evidente come, la pervasività della cosca sul territorio emiliano è così ampia da trovare terreno fertile non solo nei giornalisti, ma anche in professionisti, carabinieri, politici di tutti gli schieramenti e poliziotti. 
D’altronde la forza della cosca oltre alla paura è nel denaro e si sa: “pecunia non olet”. 
L’autrice, proprio da un uomo della Polizia (Domenico Mesiano successivamente arrestato) riceverà una minaccia di interrompere le sue “indagini” sul clan Muto; questo dopo aver scritto un articolo (pubblicato sul Resto del Carlino) in cui si metteva in luce una cena organizzata dagli adepti del clan Grande Aracri alla quale avevano preso parte anche esponenti politici e persone vicino alla cosca. Incontro che diventerà in seguito “la famosa cena”. 
Fortunatamente le minacce sono state rispedite al mittente e denunciate. 
Personalmente credo che le minacce subite abbiano sortito l’effetto opposto, motivando la giornalista a proseguire con il suo lavoro e facendole capire che il percorso segnato era quello corretto. Questo è stato messo in risalto anche nell’ordinanza di Aemilia da parte del GIP dottor Ziroldi, le cui parole non possono non essere riportate: “I fatti danno fastidio più delle idee. Chi obbedisce ai fatti rimane un uomo libero, e Sabrina Pignedoli ha dimostrato di essere libera” (p.128). E dello stesso tenore sono ancora le parole del Procuratore di Bologna Roberto Alfonso con il suo plauso alla forza di andare avanti e di “respingere il tentativo di compressione della libertà di stampa”. 
Fanno anche sorridere le battute che la scrittrice fa nel descrive gli avvenimenti del Comune di Brescello, piccolo paesino in cui Guareschi aveva ambientato le storie di Don Camillo e Peppone. Così il nuovo Don Camillo (Don Evandro Gherardi) non sarà più il rivale del Sindaco comunista Peppone ma diventa suo condiscendente sostenitore. 
Purtroppo gli arresti dell’operazione Aemilia gli daranno torto. (p.67)
E’ triste, infine, vedere e confermare come in tutta questa storia chi vince è sempre l’omertà delle persone (in ogni campo, nessuno escluso) che, non avendo il coraggio di ribellarsi a questo sistema, lasciano che la propria vita sia condizionata da questi Signori.
Consiglio la lettura di questo libro a chiunque voglia comprendere il modus operandi della ‘ndrangheta che si muove per fare affari con chiunque: che si tratti di privato o di esponente pubblico. Ottimo esempio di giornalismo d’inchiesta.