Tu sei

Tu sei la pace tra le guerre;
tu sei il silenzio in mezzo al frastuono;
tu sei l’amore dove prima c’è stato l’odio;
tu sei l’arcobaleno dopo il temporale violento;
tu sei il tizzone ardente tra il gelo dei ghiacciai;
tu sei la bellezza nel mondo in cui regna l’orrendo;
tu sei la stella polare, per il marinaio, nella notte più buia;
tu sei il porto sicuro in cui le barche si proteggono dalle onde rabbiose;
tu sei la neve che dipinge di bellezza anche il paesaggio più maltrattato;
tu sei ciò che gli altri non sono mai stati e non potranno mai essere
perché: tu sei tu.

Come si riconosce una mamma?

Una mamma si riconosce da come ti guarda, con gli occhi sorridenti, sempre, anche se l’hai offesa un momento prima oppure l’hai scacciata un momento dopo, perché non ti guarda con la vista, ma ti guarda con l’amore che straborda dagli occhi.

Una mamma si riconosce dal profumo che emana, sa di buono, sa di quell’ultimo biscotto preparato prima che lasciassi la sua casa per affrontare l’oceano della tua vita. Sa della certezza nell’amore per te quando una fragranza, incontrata per caso, scrollerà con forza l’armadio dei ricordi di lei e come un’onda ne sarai travolto.

Una mamma si riconosce dal suono della sua voce, quella imparata ad ascoltare prima che ti affacciassi alla vita per diventare uomo. La voce che ti ha rassicurato quando le tenebre oscuravano la vista e non avevi altro per sfuggire alla paura. La voce sempre pronta ad ascoltare ciò che non dici, illudendoti di non farla preoccupare, ma che sa sempre se un mostro, sotto il letto, ti sta tormentando.

Una mamma si riconosce dal sapore dei suoi baci, sempre presenti, sempre pronti a guarire la ferita inferta dalla caduta più rovinosa che la vita possa infliggerti. Il bacio della mamma è unico, non può essere comprato per trenta denari perché non potrebbe tradirti mai.

Una mamma si riconosce dalla carezza che ti regala, perché la carezza di una mamma è ruvida, come la pelle delle sue mani, consumate da una vita passata a usarle per il tuo bene, usate per rimetterti in piedi dopo essere caduto e offerte come rifugio quando tutto intorno a te è mancato. Per questo la carezza di una mamma non si sente sul viso, ma si vive con il cuore.

Così si riconosce una mamma e oggi di tanti anni fa ne è nata una: la mia.

Buon compleanno mamma.

I giochi del destino

“Questi aggeggi moderni non riuscirò mai a capirli… ma come si fa, ah ecco…”
“Pronto? Ciao papà!”
“Ciao Marco, buon compleanno.”
“Grazie papà, cosa stai facendo?”
“Marco, finisco di prepararmi e porto la mamma al mare.”
“Papà, credi sia il caso di farlo?”
“Certo, oggi è il nostro anniversario e lei ama il mare, lo sai.”
“Lo so, papà, lo so. Va bene, come vuoi, buona giornata, papà.”
“Ciao Marco.”

14 agosto 1965.

Era una mattina d’estate. Il sole, appena svegliato dal breve riposo notturno, cominciava a scaldare tutto ciò capitasse sotto il suo rassicurante mantello dorato. Il cielo era limpido, qualche batuffolo di cotone bianco interrompeva l’immensa distesa azzurra, dando l’impressione di aver trasferito il mare con le sue increspature al di sopra delle chiome degli alberi. La terra non ancora arsa dal sole brulicava di una distesa uniforme di piccoli fili d’erba: un tappeto, sotto il quale si nascondevano tanti animaletti alle prese con il lavoro quotidiano, da portare a termine prima dell’arrivo del buio. Un gruppo di uccellini svolazzava da un albero all’altro solo per il piacere di rincorrersi, e cinguettava felice spargendo l’allegra melodia in ogni direzione. L’alba, da poco superata, aveva distribuito nell’aria il suo tipico profumo di fresco, quello capace di richiamare alla memoria i ricordi felici, quello che si attacca alla pelle e ti sussurra nell’orecchio: goditi questo momento, rivivi le emozioni chiudendo gli occhi e aprendo il cuore.

L’albero più maestoso della zona proiettava la sua ombra come fosse un dipinto in bianco e nero, e faceva da scudo a Fabio, un giovanotto di vent’anni nel pieno della vita. Fabio quella notte l’aveva passata, fuori, nei campi. Il caldo opprimente di quei giorni lo aveva costretto a cercare refrigerio nell’unico modo possibile in quegli anni: all’aperto, con un vecchio lenzuolo a fare da cuscino. Aveva usato il tronco di quel vecchio, ma gigantesco albero, come lo schienale di una poltrona. Si sentiva un re adagiato sul trono mentre guardava esibirsi per lui, sopra la testa piena di riccioli neri, la compagnia dei danzatori delle stelle, con la luna a fare da direttore d’orchestra. Fu con lo spettacolo gratuito della natura negli occhi ad addormentarsi, e fu con gli zampilli caldi dei raggi del sole a svegliarsi. Quel sabato mattina Fabio era stato dispensato dai quotidiani lavori della terra, un regalo da parte del padre, impegnato in commissioni più urgenti. Se ne stava lì, immobile, sul suo giaciglio improvvisato, la sera prima, con lo sguardo rivolto verso la pianura incondizionata, a farsi coccolare dalla leggera brezza proveniente da ovest. Il pezzo di terra in cui Fabio passava le giornate, stancandosi e sudando da mattina a sera, confinava con un vecchio sentiero battuto ricoperto da un miscuglio di erba secca e pietrisco informe. Un mix letale per chi avesse avuto l’ardire di non controllare dove poggiare i piedi, prima di tentare la traversata. Un mix letale per Anna, quella mattina, troppo impegnata ad evitare l’attacco di una ferocissima ape armata fino ai denti (e troppo impegnata a non controllare dove mettere i piedi). Per questo le fu inevitabile il tuffo privo di grazia sul manto duro della strada pronto ad abbracciarla. Il capitombolo fu talmente plateale e rumoroso da non passare inosservato agli occhi di Fabio, che aveva intravisto la ragazza con la coda dell’occhio pochi istanti prima del fattaccio. Forte della giovane età, del riposo accumulato nelle ore notturne e dei muscoli ben allenati, con pochi balzi si portò immediatamente al lato di Anna, e porgendo la mano si rivolse a lei dicendo: “Sei caduta?”
Come risposta ebbe un sonoro e antipatico “No, sono qui a tenermi le ginocchia perché mi mancavano e hanno bisogno di un abbraccio!”
“Hai ragione, ho detto una sciocchezza. Ti sei fatta male?”
“No, cado perché mi riempie di felicità.”

Anna era a terra, rannicchiata su se stessa; si teneva le ginocchia, cercava di proteggerle con le mani come uno scudo protegge il suo soldato. Un rivolo di sangue, oltrepassando la barriera delle dita, precipitando verso il basso, sporcò il lato della scarpa bianca. Il viso piegato in avanti nascondeva gli occhi tenuti chiusi a causa del dolore, serrati anche durante quel primo scambio di battute, non andato del tutto bene fra i due. Fabio, rimasto in silenzio, aveva tenuto la mano tesa, aspettando di ricevere quella di Anna, aspettando di poter essere utile con un gesto, piuttosto che con le parole. Lei, stretta in quella morsa, non l’aveva ancora degnato di uno sguardo. Passati gli attimi in cui il dolore è più acuto, Anna aprì gli occhi e voltò la testa verso Fabio senza lasciar andare la presa. Quel preciso istante fu il momento in cui si videro per la prima volta. Quel preciso istante fu il momento in cui i loro occhi si incontrarono. Quel preciso istante. Fu il momento in cui i loro cuori smisero di battere autonomamente e iniziarono a battere l’uno per, tenere in vita, l’altro. Come lo schiocco di una frusta, improvvisa, sonora e quasi invisibile, giunse l’amore, appropriandosi del corpo, della mente e dell’anima dei due ragazzi. Se fosse stato presente, uno spettatore avrebbe visto due anime sovrapporsi e trasformarsi in purezza dando vita a un sentimento unico, totalizzante, imprescindibile; così, se Aristofane fosse stato lì avrebbe potuto confutare il suo mito raccontato durante il Simposio. Fabio e Anna capirono immediatamente cosa era successo: pur non avendolo mai provato prima, riconobbero l’amore vero. Una mole immensa di parole, pagine, pensieri sono state usate per descrivere il sentimento più ricercato tra gli uomini. Qualsiasi forma d’arte ha tentato attraverso la pittura, la musica, la scultura di dare forma a ciò che di più intangibile possa esistere, rappresentare l’emozione capace di far scoppiare guerre feroci in suo nome: l’amore. L’amore è così, finché non lo si prova la prima volta si cerca ad ogni costo di dargli una fisionomia, di visualizzarlo. Sentiamo la necessità di arrivare preparati al primo appuntamento con lui perché troppo preoccupati di non riconoscerlo, senza immaginare, senza sapere, senza renderci conto che sarà sempre lui a riconoscere noi. È un suo compito, una sua prerogativa. La natura, quando creò l’uomo, decise per noi, e noi possiamo solo sottometterci a questa regola. Forse è giusto così; perché prendere per la prima volta un pugno in faccia, all’improvviso, potrà, pur, fare più male del necessario, ma lascerà il ricordo intatto così com’è, per sempre, così come è il ricordo dell’amore. Imbattersi in lui, nell’amore, all’improvviso, disorienta, sconvolge, ma una volta provato crea dipendenza e non si può più farne a meno. L’amore è la sostanza stupefacente creata dalla natura per farci raggiungere vette inesplorate di felicità, ma allo stesso tempo capace di gettarci nel baratro più profondo della disperazione. L’amore è il senso che la morte dà alla vita, e Fabio e Anna, nel momento in cui unirono i loro occhi, furono travolti da una valanga di emozioni, diventando una persona unica in due corpi distinti. Anna, ripresa dallo sbigottimento dovuto all’eruzione di sensazioni che l’avevano invasa, accettando la mano di Fabio, si alzò in piedi, e lui poté fissare nelle mente, come una fotografia, l’immagine della donna più bella che avesse mai visto. I lunghi capelli biondi, racchiusi nella immancabile treccia, adornavano il viso pieno di vitalità; gli occhi nerissimi facevano da contrasto alla pelle chiara. Ma a colpire Fabio fu la sensazione di serenità emanata dal sorriso spuntato per caso sulle labbra.
“Come ti chiami?” chiese Anna, mentre il cervello le ordinava di lasciargli la mano e il cuore di stringergli anche l’altra.
“Fabio” fu la risposta sottovoce. Aveva paura, anche, di farsi sentire a causa dei primissimi rimbrotti di Anna.
“Si è strappato il vestito e mi sanguinano le ginocchia. Fabio, invece di fissarmi hai un po’ d’acqua per potermi ripulire?”
Fabio tentò di rispondere, ma riuscì solo ad emettere dei suoni senza senso capaci di far ridere di gusto Anna, e quella risata riuscì a rilassare Fabio privandolo di qualche freno inibitore di troppo.
“Sei bellissima, e non ho mai visto una ragazza diventare magnifica mentre ride.”
Anna, per non tradire l’imbarazzo dovuto a quella affermazione tanto spontanea, quanto inattesa, ma in grado di farle tremare le gambe, rispose con un fuorviante “Tu sei strano, sei incapace di dire la cosa giusta al momento giusto.” Disse accigliando gli occhi.
“Abito in quella casa vicino agli alberi di noci. Dentro c’è mia mamma. Puoi ripulirti lì. Non ti ho chiesto come ti chiami.” Disse Fabio spostandosi davanti a lei e mostrando il viso forte e gli occhi verdi.
“Anna, mi chiamo Anna”.
Senza lasciarle la mano e senza risponderle, Fabio la costrinse a seguirla, ma Anna non avrebbe fatto nulla per opporsi alla decisione del ragazzo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per continuare a sentire il senso di protezione che Fabio le infondeva. 

I due ragazzi entrarono in casa dove la signora Marta, madre di Fabio, era alle prese con una teglia di biscotti al burro appena sfornati. Voltandosi, vide il figlio con una strana luce negli occhi tenere per mano una sconosciuta. Sconosciuta incapace di nascondere la necessità di non spostare gli occhi da Fabio. Aveva paura, distogliendo lo sguardo dal ragazzo, di perderlo per sempre. Fabio raccontò alla madre cosa fosse successo, e Marta iniziò a medicare Anna come fosse sua figlia. In realtà a Marta non servivano spiegazioni: aveva riconosciuto, affacciandosi dalle finestre degli occhi che danno sull’anima del figlio, la tempesta abbattutasi nel cuore del ragazzo, e individuando in quella ragazza solare il motivo per averla promossa a presenza fissa in casa sua da quel giorno in avanti. Ripulita dai detriti rimasti attaccati alla pelle a causa della caduta, e tolto il sangue dalle ginocchia, ringraziò la mamma di Fabio.
“Signora, è stata davvero gentile.”
“Chiamami Marta. È un piacere aiutare gli amici di Fabio” e, rivolgendo lo sguardo al figlio, aggiunse “soprattutto quando ho di fronte una donna speciale quanto te.”
“Marta, è una delle più belle bugie che mi abbiano raccontato. Ora vado, buona giornata.” replicò Anna mentre oltrepassava la porta sul retro, seguita da Fabio. I ragazzi si allontanarono dalla casa restando in silenzio. Nessuno dei due aveva voglia di mettere a tacere i mille pensieri che il cuore urlava a tutto il corpo, mentre la testa cercava invano di disciplinare l’assemblea di emozioni arrivate da troppo poco tempo, a spazzare via ciò che la vita aveva insegnato a loro fino a quel momento. Allontanatisi abbastanza per non essere visti, Fabio sussurrò “Anna, voglio rivederti.”
“Vuoi? E chi credi di essere? Sono io a concederti la possibilità di raccontarmi chi sei.” rispose la ragazza mordendosi leggermente il labbro superiore.
“Posso avere l’onore di allietarla con i racconti della mia vita, mademoiselle?” Replicò Fabio, simulando una finta e plateale riverenza. Anna iniziò a ridere coprendosi la bocca con una mano, un gesto tanto istintivo quanto pieno di dolcezza, agli occhi di Fabio, da fargli intuire che le risposte di Anna, sempre sul filo dell’indisponenza, erano solo un modo per proteggere e non mostrare a chiunque quell’anima gentile, anima rimasta celata fino a quel giorno. Fabio promise a se stesso di riuscire a scoprire chi si nascondesse dietro quel mantello di bellezza e finta indisponenza, e si disse che avrebbe provato con ogni mezzo a mantenere sempre vivo il sorriso sul viso di Anna.
“Sabato prossimo nel tardo pomeriggio andrò in paese. Se vuoi puoi accompagnarmi…”
Fabio non fece nulla per nascondere la felicità esplosa sul suo viso nell’accogliere la proposta di Anna.
“Ci sarò.” Rispose, mentre la ragazza continuò.
“Ti aspetto alla fine della grande strada, dove inizia il bosco di pini.” e lanciandosi come un gatto sul suo gioco preferito gli regalò un bacio tanto delicato quanto pieno di dolcezza sulla guancia sinistra. Quella notte Fabio non ricevette la visita di Morfeo. La sua mente era troppo impegnata a rivedere ogni istante del film in cui era stato il protagonista principale durante il giorno, mentre il cuore, con in mano un secchio gigante di potentissima colla, provvedeva a bloccare su una parete il ricordo di ogni sussulto provato.
Anna, al contrario, usò i ricordi della giornata per sprofondare in un dolcissimo sonno ristoratore, coccolata dal pensiero inconsapevole di aver appena scritto la prima pagina del nuovo libro della sua vita, quello che l’avrebbe accompagnata, tenendola per mano, sulla via della serenità. I giorni passarono veloci per i due ragazzi. Entrambi avevano puntato il cannocchiale sulla sera in cui si sarebbero potuti finalmente rivedere. Utilizzando un’immaginaria macchina del tempo, installata nella mente, hanno vissuto quel secondo incontro milioni e milioni di volte. Cercavano di prevedere ogni possibile scenario e vagliando ogni probabile battuta e risposta che si sarebbero potuti dire; la solita necessità di voler arrivare preparati all’incontro in cui solo l’impreparazione avrebbe giocato il ruolo più giusto e spontaneo per tutti.

“Mamma, io esco; vado in paese.” Urlò Fabio, mentre scappava da casa impaurito dalle possibili richieste della madre sul suo abbigliamento stranamente elegante. Anna, al contrario, non si preoccupò di cosa indossare: la sicurezza di ciò che mostrava quotidianamente all’esterno la tranquillizzava. Fabio arrivò con quindici minuti di anticipo sul posto indicato dalla ragazza. Era emozionato, così come era emozionato il suo cuore; anche lui, come Fabio, girava in tondo infastidendo gli altri organi, quando all’improvviso sia Fabio che il cuore si bloccarono. La vide all’improvviso a pochi passi da lui, e le parve più bella della prima volta. L’attesa di quei giorni passati lontani aveva amplificato la mancanza, mentre l’istinto, in combutta con i ricordi, aveva ricostruito nella sua mente un’immagine meno affascinante, con lo scopo di poter infliggere nuovamente una stilettata tra le pieghe dell’amore, un secondo colpo in grado di imprimere a vita, come un tatuaggio, il viso di Anna sul cuore di Fabio. Anna, per l’occasione, aveva raccolto i capelli, rinchiusi in una gabbia di raso rosso con la pettinatura, che lasciava scoperto il collo e parte delle spalle. La luce del tramonto metteva in risalto le forme sinuose del corpo, avvolto in un lungo vestito tenuto volutamente più aderente. Si fermò a pochi centimetri dal viso di Fabio, rimasto immobile; si fissarono negli occhi per lunghissimi istanti. Entrambi si scambiarono parole piene di incredula emozione, rimanendo in silenzio. Quel momento, provato tante volte nella loro mente, stava andando nell’unica maniera non immaginata, in silenzio. Visti da fuori, i ragazzi sembravano due statue di cera, se non fosse stato per il luccichio provenire dagli occhi. Mentre i corpi rimanevano lontani, le anime si abbracciarono e si promisero, senza chiedere il consenso, vita comune, qualunque cosa fosse successo. Tutto intorno a loro scomparve. Luci, suoni e profumi si appiattirono. Si trovarono immersi in una nebbia capace di farli sentire al sicuro e lontani da tutti, amplificando il senso di serenità, e in quell’istante l’amore pervasivo dei due ragazzi sfociò in un inatteso lungo bacio, mentre i corpi si fondevano tra di loro. L’unione delle labbra, il momento in cui uno respira l’ossigeno dell’altra; l’avvertire il tocco delicato e morbido della pelle calda; il gustare il sapore dell’amore, dell’ignoto ma profondamente rassicurante; il vivere sensazioni umane tramite emozioni irrazionali: quello è il momento in cui la vita smette di essere un insieme di attimi da dimenticare, per trasformarsi in una fotografia indelebile da portare sempre stretta tra le braccia. Quel lungo abbraccio di corpo e anima, durato pochi istanti nella realtà, ma un tempo immensamente lungo per Fabio e Anna, confluì in due mani intrecciate mentre si avviarono sul sentiero, in direzione del paese.

Le giornate passavano veloci. I due ragazzi continuarono a vivere in quell’angolo di mondo fatto di lavoro duro, impegni quotidiani scanditi dal ritmo delle stagioni e da momenti ritagliati qua e là per stare insieme. In quegli anni non era scontata la possibilità di poter passare il tempo insieme, così come non era scontata la possibilità di avere lunghi momenti di solitudine. Non esistevano telefoni, messaggi, applicazioni social e altre diavolerie elettroniche in grado di avvicinare, stando lontano, le persone. La gente, per parlare, per essere presente, doveva incontrarsi, guardarsi negli occhi o stringersi la mano. L’assenza era assenza e non poteva essere alleviata da nulla, così come la mancanza era il pasto quotidiano degli innamorati. Pasto amaro, ma con il pregio di tenere sempre in vita i sentimenti alimentati dalla forza dei ricordi. Le giornate, gli atteggiamenti, il pensiero, ciò che era giusto o sbagliato aveva una connotazione molto diversa dai nostri giorni, e Fabio e Anna non potevano né cambiare queste abitudini, né avevano voglia di farlo; erano cresciuti con quella mentalità e a loro piaceva sostenerla e seguirla. Questo era il motivo che li portò a prendere una decisione un pomeriggio di gennaio, a quattro anni di distanza dal primo incontro. Tentavano di scaldarsi a vicenda per scacciare il freddo incessante e crudele dell’inverno: li aveva tenuti lontani per venti lunghi giorni. La lunga astinenza dai loro stessi sguardi li aveva stremati. Non era mai successo prima. Si rividero e iniziarono a correre l’uno verso l’altra, senza prestare attenzione alla neve alta che inzuppava  i vestiti asciutti. Il loro abbraccio fu più simile a uno scontro. La voglia di fare, incetta del profumo della pelle, bruciava la ragione. Lunghi e appassionati baci rinfrescarono i ricordi lasciati a gozzovigliare per troppi giorni. I due ragazzi in quel momento avevano solo la necessità di stare insieme, e cercarono riparo dal freddo – e da occhi indiscreti – all’interno di una cavità naturale nel bosco dei pini. Fabio si sedette accogliendo Anna al sicuro, tra le braccia, e lei usò il corpo del ragazzo come giaciglio in cui sentirsi nuovamente una bimba coccolata (dai genitori). La testa di Anna poggiava sul viso di Fabio e lui sentiva il profumo dei suoi capelli. Fragranza che aveva imparato a riconoscere e fatto diventare un’estensione del suo corpo. Avevano un rituale: ad ogni incontro si scambiavano un fazzoletto di stoffa che avevano lasciato nel letto mentre dormivano, impregnandolo con il proprio profumo (del proprio essere) e se lo scambiavano; avevano sempre con loro un pezzo dell’altro, un amuleto magico in grado di scatenare la mandria dei ricordi a ogni respiro.
Stringendola più forte, Fabio le disse “Questi giorni sono stati troppo lunghi. Ho sentito la mancanza strapparmi la pelle, cercava a tutti i costi di farmi impazzire e ci è quasi riuscita.”
“Dai, quanto sei drammatico.” rispose Anna con la sua solita impertinenza, tentando di minimizzare sensazioni vissute e provate allo stesso modo. Lei lo conosceva. Se avesse risposto sinceramente, utilizzando i pensieri affollati nella mente che le urlavano: amore hai ragione è stata troppo dura, non ero preparata, e starti lontana diventa ogni giorno più difficile, Fabio si sarebbe rattristato, non potendo trovare una soluzione capace di renderla felice. Lui non si fece intimorire dalla battuta pungente. Anche Fabio conosceva Anna come se stesso e quelle parole non lo sorpresero. Le ignorò continuando a seminare, lanciandoli in aria, i pensieri spuntati come funghi a settembre, dopo una giornata di pioggia. Dando forza alle frasi spinte sulle labbra dalla sicurezza dei sentimenti, aggiunse “So cosa possiamo fare, anzi so perfettamente cosa posso fare io.”
Mentre lei lo guardava con aria interrogativa, non comprendendo dove volesse portarla con quelle affermazioni tanto sicure quanto improvvise, lo vide spostare la mano destra e cercare qualche oggetto abbandonato in quel ricovero di fortuna. Anna non capiva cosa stesse cercando di fare. Il posto non offriva nulla di più di pochi fili d’erba secca. Era talmente desolato e poco protettivo da essere stato snobbato anche dagli animali rimasti svegli durante l’inverno. Fabio prese quattro o cinque fili d’erba, scegliendoli tra i meno secchi. Facendo ricorso alla manualità imparata nell’intrecciare cesti  e sedie in vimini iniziò a creare una piccola treccia, annodando le due estremità. Concluse l’opera di altissimo artigianato, avvolgendo la treccia attorno al suo dito legandola a formare un piccolo cerchietto. Tutta la complessa operazione la svolse continuando a tenere Anna tra le braccia; ma, appena ebbe finito, liberò le sue gambe dal peso della ragazza. Anna era seduta sul manto freddo di terra battuta. Fabio si spostò davanti a lei, assunse la posizione di un credente di fede musulmana mentre prega rivolto verso la Mecca. Sollevò la mano stringendo l’anello composto pochi minuti primi e con voce certa, priva di tentennamenti, pervaso da una strana sensazione di sicurezza le disse “Credo di non aver mai desiderato nulla di più nella vita. Mi sono innamorato di te nel primo momento in cui i nostri occhi si sono incontrati. Continuo a innamorarmi ad ogni tuo sorriso e voglio passare ogni giorno della mia vita con te. Vuoi sposarmi?”
Il viso di Fabio emanava serenità, tranquillità, voglia di vivere, dava l’impressione di aver recitato quella scena ogni santo giorno, tanto era priva di timori o imbarazzi.
Anna fu colta alla sprovvista. Vedere l’uomo che amava compiere quel rito letto nei romanzi, ascoltato tante volte dalle signore del posto, immaginato con le amiche, le riempì gli occhi di lacrime. Sentì crescere un uragano di emozioni. L’amore provato fino a quel momento dentro di lei esplose, scalzando ogni cellula da sentimenti diversi. Si gettò d’impeto, con le braccia aperte, addosso a Fabio, ed entrambi caddero a terra. Con la voce rotta dal pianto rispose “sì, sì, sì, sì e un milione di altre volte sì! Scelgo te, e scegliendo te scelgo me e scelgo noi. Oh, Fabio, sono così felice, vorrei urlarlo al mondo!”

I ragazzi scelsero, come data per il giorno più importante della loro vita, la stessa data in cui si conobbero. Credevano nelle coincidenze, sentivano il bisogno di fare un regalo al destino e, dovendo o potendo stabilire un giorno, scelsero: venerdì 14 agosto 1970. 

Il destino, da par suo,  pur essendo beffardo, accolse il regalo e cambiò le carte in tavola. Aveva scritto la trama del loro percorso insieme, ma la cambiò in corsa. I preparativi iniziarono molto presto la mattina: il sole aveva già dato il buongiorno a tutti. C’era una sposa da preparare, e uno sposo da tenere a freno. Genitori troppo occupati nell’adornare il piccolo tavolo, spostato al centro della cucina, da farsi prendere dall’emozione. Frutta fresca, biscotti secchi, dolci alle mandorle ed una torta ripiena di marmellata, pronti per essere offerti a parenti nuovi e acquisiti dopo la cerimonia, furono disposti meticolosamente, cercando di creare sul piano rigido ricoperto con una tovaglia di lino ricamato, un piccolo arcobaleno di leccornie e genuinità. Il parroco della piccola Basilica Minore aveva preparato, la sera precedente, sia l’altare sia i paramenti più belli; il sacramento del matrimonio andava officiato come Santa Romana Chiesa ordina. Tutto era pronto per unire le anime dei due ragazzi. Un mantello cucito utilizzando cotone di vita comune, rispetto e verità andava avvolto attorno a loro, fissato con ceralacca e marchiato con il timbro riportante l’effigie del “Finché morte non ci separi”. Ma quello era un compito demandato a Dio, e solo Dio poteva e doveva farlo. 

La chiesa era gremita. Amici e parenti avevano occupato ogni centimetro del resistente legno marrone, di cui erano fatte le panche ordinate in due file parallele. I monelli erano stati lasciati fuori dal luogo sacro, si rincorrevano. Meglio tenerli occupati fra di loro, che costringerli ad un silenzio poco pratico per la loro età. Fabio attendeva, ritto come un soldato sull’attenti, in piedi, alla destra della navata. Un irriverente raggio di sole, infilatosi attraverso il rosone, e infrantosi sul vetro colorato posto alla base della cupola, lo torturava solleticandogli la guancia, ma in realtà illuminava, rendendoli più lucenti del solito, i riflessi verdi degli occhi. Anna varcò con passo leggero il portale con protiro centrale: era radiosa. L’abito bianco, privo di frivolezze eccessive, la vestiva allungando la figura esile. Lo aveva cucito lei stessa, ed era come l’aveva desiderato. Uno stilista non sarebbe stato in grado di modellare con tanta precisione ogni dettaglio inserito con uno scopo preciso. Le braccia, coperte dai lunghi guanti bianchi, si intonavano con i piccoli intarsi del corpetto morbido. Tra i capelli faceva capolino qualche fiorellino di campo. Il sorriso occupava gran parte del volto, mentre la gioia invadeva per intero corpo e spirito. La luce interiore era così evidente, da oscurare tutto ciò capitasse intorno a lei. Teneva, con la mano sinistra una piccola composizione floreale, mentre con il braccio destro stringeva il padre. Quel signore tutto d’un pezzo, per Anna guida dal primo respiro, era stato un modello, un oracolo su cui fare incondizionatamente affidamento. Lui, allo stesso modo, amava la figlia di un sentimento così profondo da non aver mai immaginato che un giorno sarebbe diventata la donna più importante di un altro uomo. L’unico pensiero, capace di riempire la mente, durante il breve percorso fino all’altare era “La perdo senza perderla. La sera, prima di dormire, non mi salterà più al collo per dirmi sei il papà più mamma che esista.” Per un padre mettere la mano della figlia in quella di uno sconosciuto è la prova più ardua richiesta dalla vita. La richiesta di rinunciare ad essere il porto sicuro in cui rifugiarsi, a non poter più rappresentare l’uomo più bello, più forte, più intelligente, più tutto. È la prova d’amore per eccellenza.
Un padre donerebbe la vita per i figli, ma in quel momento si sentiva come un libro vecchio tenuto da sempre sul comodino. È lì, lo hai letto migliaia di volte sfogliando le pagine a casaccio. Ha fatto da piano ad altri libri poggiati sopra di lui, letti e accantonati, ma nonostante ciò è rimasto sempre lì, pronto per essere ripreso nei momenti tristi e felici, perché sai che c’è. Quel libro rappresenta la certezza dell’esserci, ma il suo tempo ormai è scaduto. Sta per essere riposto nella libreria insieme agli altri, nel primo posto libero, forse quello in alto a destra dove non arriva mai nessuno a prenderlo, e serve una scala per arrivarci. Rischia di avere come compagno di banco un testo di barzellette o un manuale inutile, continuando ad accumulare polvere sulla testa.
“Fabio, promettimi solo di riportarmi mia figlia se ti dovessi accorgere di non riuscire più a renderla felice” gli disse. In quel momento una lacrima dava vita ad una nuova ruga sul viso provato, e gli consegnò la mano della donna più importante. 
“Te lo prometto” rispose Fabio, serio in volto, perché era una promessa fatta anche a se stesso in quell’istante. Il padre di Anna rientrò tra i banchi e i due ragazzi finalmente si tennero per mano. Si guardavano. Per un breve momento hanno avuto l’impressione di vedersi con gli occhi dell’altro, ed hanno visto cosa provassero l’uno nei confronti dell’altro. Era l’inizio di una nuova vita insieme, e da quel giorno non si sarebbero più lasciati. La cerimonia oltre ad essere emozionante ebbe dei momenti spensierati. Il parroco aveva celebrato abbastanza matrimoni da essere conscio di dover mettere gli sposi a proprio agio, ripulendoli dalla patina di tensione che inevitabilmente la giornata si porta dietro. Alla fine del rito il preposto fece uscire i presenti.
“Signori, vi invito ad aspettare fuori dalla chiesa. Questi due ragazzi sono arrivati davanti a Dio soli, come due persone distinte, adesso verranno tra di voi come una sola famiglia legata dall’abbraccio del Signore.”
Si mise al centro tra Fabio e Anna, e tenendoli per mano li accompagnò verso l’uscita. Percorsero la navata in tre, ma ad un passo dal grande portone di legno, ricoperto con una lastra di ottone piena zeppa di immagini sacre, unì le mani dei due ragazzi intrecciando le dita e sussurrando sottovoce “Le mani siano sempre una al fianco dell’altra, una dentro l’altra e mai una sopra l’altra. Adesso dovete camminare insieme, sia l’amore reciproco l’unica vostra guida.”
E li diede in pasto ai parenti festanti. Li accolsero con abbracci sinceri, ricoprendoli di riso. Fabio e Anna, durante i preparativi del matrimonio, decisero di non poter vivere nello stesso posto in cui crebbero. Il lavoro dei campi non assicurava un futuro sereno, ma soprattutto entrambi coltivavano in segreto un sogno: vivere vicino al mare. Si rimboccarono le maniche, e aiutati dallo zio Antonio, Fabio trovò lavoro come apprendista nella bottega di un falegname. Anna, al contrario, avendo imparato tutti i trucchi del mestiere dalla madre e dalla nonna, decise di fare la sarta usando casa come laboratorio. Zio Antonio, dopo qualche ricerca, fece anche l’ulteriore miracolo: riuscì a trovare un piccolo nido, davanti al mare, nel paese più vicino a quello dei genitori. In realtà lo zio Antonio non era un parente diretto, ma la persona presente in ogni famiglia, amico di tutti. L’uomo da interessare quando c’è qualche problema da risolvere. L’uomo mosso esclusivamente dal bene e così vicino alla famiglia da guadagnarsi sul campo l’appellativo di zio.
L’abitazione trovata era piccolissima; un paio di stanze al pian terreno. Era tutto ciò che volevano, era tutto ciò di cui avevano bisogno. Quel tetto era il luogo dove trovare l’altro, il posto in cui il pensiero poteva planare libero sicuro di atterrare tra le braccia rassicuranti della famiglia appena nata. Solo pochi metri separava l’unica finestra dalla spiaggia sabbiosa. La prima volta che Anna mise piede in casa si diresse direttamente verso quella finestra, l’aprì, e vide l’orizzonte tuffarsi nell’immensa distesa d’azzurro. I due colori giocavano a mescolarsi. Tentavano di confondere gli occhi movimentando i confini, mentre i raggi del sole esplodevano, a contatto con l’acqua, in milioni di piccoli luccicanti coriandoli monocolore. I minuscoli puntini luminosi si lasciavano dondolare leggere dal movimento sinuoso delle onde. L’unico suono che si udiva provenire dalla direzione del mare era lo sciabordio dell’acqua infranta sulla sabbia morbida, trasportando sul dorso il fresco profumo dell’immenso. Bastò lo spettacolo della natura, l’idea di poterne godere ogni giorno, anche nei periodi in cui il mare sarebbe stato arrabbiato a far dire ad Anna “È il posto giusto, è la casa giusta. Qui potremo avere la nostra pace, e costruire il nostro futuro.”
Continuando a fissare il dipinto in movimento, Fabio tentò di replicare ma, con poca convinzione, aveva riconosciuto la determinazione della sua voce.
“Anna non hai guardato nulla della casa.”
Lei, voltandosi di scatto, con gli occhi sorridenti e la voce certa, appoggiando entrambi i gomiti alla base del vetro aggiunse “Fabio, ci sei tu, c’è il nostro mare. Io non ho bisogno d’altro, il resto lo costruiremo insieme.”
“Come vuoi.”
Fu l’unica risposta possibile,
“Vedi, continuo ad avere ragione. Fabio, non hai scampo sei condannato ad ammettere la mia superiorità.” disse senza poter contenere la felicità che le stringeva lo stomaco, scoppiando in una fragorosa risata.
“Sei la condanna desiderata da tutti, ma solo io potrò scontarti.” Replicò lui con un sorriso dolcissimo stringendo le labbra e arcuandone verso l’alto i lati della bocca.

Nel tardo pomeriggio la cerimonia era finita. La piccola casa di mare conteneva già la maggior parte delle loro cose. Erano state portate nei giorni precedenti, immediatamente dopo averla ripulita. Anna aveva cercato di arredarla con quel poco che aveva, mentre le due mamme hanno provveduto al rito della “vestizione del letto”. Una vecchia abitudine contadina, una forma di scaramanzia persa da anni, voleva che il letto matrimoniale degli sposi fosse preparato, per la prima notte di nozze, dalla mamma e dalla suocera, rigorosamente senza farlo toccare al nuovo nucleo familiare. Il letto poteva essere sfiorato e disfatto dagli sposi solo dopo la benedizione dell’Altissimo. Iniziarono la nuova vita insieme prima di sera. Fabio aprì la porta e prendendo in braccio Anna oltrepassarono l’ingresso: (Anche questo) l’ennesimo rituale era stato rispettato. Le giornate in quella casa passarono felici. Fabio imparò velocemente il nuovo lavoro, aveva talento per i mestieri manuali, e in poco tempo conobbe e divenne amico di tutti. Allo stesso modo Anna portò avanti una florida attività sartoriale, la minuziosità e la precisione dei suoi lavori le procurò in pochissimo tempo un folto numero di clienti. I due ragazzi erano ben voluti, la comunità in loro riconosceva due persone di cui potersi fidare e loro ricambiavano con gentilezza e disponibilità. Mancava un figlio alla coppia, ma loro non ne sentivano la mancanza. Si bastavano, il loro amore riusciva a tenerli insieme; ogni problema era affrontato parlandone e trovando un punto comune o un’idea capace di mettere d’accordo entrambi. Con il tempo avevano imparato a riconoscere il momento in cui fare un passo indietro, quando era il caso di disinnescare una bomba pronta ad esplodere. Non c’era una regola fissa, non era sempre uno dei due a vincere la battaglia, perché non c’erano battaglie da vincere, ma problemi da risolvere, e loro riuscivano a farlo insieme. Una domenica mattina i due ragazzi erano in casa a godersi semplici attimi di tranquillità. Fabio, sprofondato su una vecchia sedia a dondolo riparata da lui stesso, era concentrato a leggere una raccolta di poesie. Anna, comoda sulla sua poltrona, con le gambe piegate su se stesse, aveva iniziato da poco il ricamo di un tessuto per una cliente. I due troni erano stati sistemati ai lati della finestra sul mare, questa strategia gli permetteva di guardare l’orizzonte e nello stesso tempo avere il viso dell’altro a pochi centimetri. Anche in casa sentivano la necessità di essere vicini. Anna smise di lavorare, poggiò le sue cose sulle gambe e sollevò il viso. Guardò in direzione delle onde ingrossate dal vento freddo proveniente da nord, un leggero sibilo era intonato dal telaio poco ermetico della finestra. Era assorta in così tanti pensieri da poterci navigare, senza paura di naufragare nelle loro acque, ma aveva l’espressione serena. Fabio si accorse della mente occupata della moglie “Anna, che succede?”
Nello stesso momento in cui il suono dell’ultima lettera di quelle parole svanì, vide una lacrima iniziare il breve viaggio verso il pavimento,
“Amore, sono lacrime di gioia. Sono incinta” replicò tenendo la voce bassa, come se non volesse disturbare il sonno di un immaginario vicino. Fabio, senza dire nulla, scoppiò in lacrime e si gettò ai piedi della moglie, poggiò la testa sul suo grembo e si lasciò accarezzare per un tempo indefinito. La notizia dell’arrivo di un erede era il completamento della loro felicità. Lo avevano desiderato pur senza rincorrerlo ad ogni costo, e il destino anche questa volta li aveva accontentati. Non si capacitavano del perché la vita fosse stata così benevola con loro, e loro per cercare di ripagarla facevano di tutto per aiutare concretamente chi avesse avuto bisogno di una mano. 

I mesi volarono via, finché il destino non si burlò della giovane coppia, e lo fece, consegnandogli il figlio un giovedì, il 14 agosto 1975. 

Nello stesso giorno in cui si conobbero. Nello stesso giorno in cui decisero di sposarsi. La forza che travalica la volontà umana usò l’artificio della coincidenza per rimarcare la sua presenza. Quando la vita vuole dirci che tutto è possibile usa le coincidenze; sono il filo che unisce la speranza con la realtà. Marco fu il nome scelto dalla coppia per il bambino che avrebbe portato dentro di sé parti di entrambi.

14 agosto 2020.

Sono passati quarantacinque anni dalla nascita di Marco.


“Prima di andare a lavoro passo a vedere come sta papà, l’ho sentito strano a telefono.” disse Marco rivolgendosi alla moglie. “Come vuoi. Ci vediamo a cena.”
Arrivò nella casa dei genitori in pochi minuti. Lasciata la macchina in un vicino parcheggio incustodito, varcò la soglia usando le chiavi che aveva sempre tenuto con sé. Negli anni quella casa era stata ristrutturata, allargata, modificata, ma la finestra che si affaccia sul mare non è stata mai toccata, così come non sono mai state spostate le due poltrone sotto di lei. Marco ispezionò l’abitazione in pochi minuti, ma non trovò nessuno. Si avvicinò alla finestra, l’aprì, ed entrò il vento rinfrescato dall’abbraccio avuto con l’acqua del mare. Oltre il vetro, oltre i pochi metri che lo separavano dalla spiaggia era stato costruito un muretto, alto poche decine di centimetri a protezione delle auto. Era usato da tutti come panchina su cui lasciarsi andare, mentre si è avvolti dai propri pensieri stuzzicati dal film muto della natura. Lì, su quel muretto, Marco vide il padre. Fabio sedeva con le gambe penzolanti, rivolgendo il viso alla sua destra, abbastanza di lato da lasciar scorgere il sorriso sereno e gli occhi pieni d’amore. Amore mai mutato o svanito in cinquantacinque anni dal primo incontro con Anna. Amore capace di accompagnarli, tenendoli per mano, lungo il sentiero impervio delle giornate difficili e a volte monotone.
“Anna, guarda il nostro mare. In tutti questi anni non è cambiato per niente: è solo diventato più bello” disse Fabio, e aggiunse “ti amo”, mentre guardava Anna. Lei, con i suoi occhi grandi sempre vivi, il viso felice, la lunga treccia a cavallo della spalla destra, vestita del suo abito più bello, gli sorrideva dalla foto in bianco e nero incastonata nella vecchia cornice rossa, tenuta stretta al fianco e poggiata sul piano del muretto. Ascoltava il racconto dei ricordi passati insieme.

Il destino giocò la sua ultima partita l’anno precedente. Sempre nella stessa data. Il 14 agosto 2019. Doveva essere l’ennesima giornata di festa, come lo era stata per tanti anni, sfruttando la benevolenza della coincidenza o l’influsso positivo del destino. Era felicità pura per loro, racchiudere tante gioie in un giorno unico, amplificarla. “Una potenza di potenza” per esprimerla in termini matematici. Ma il destino, cinico, quella volta decise di riprendersi indietro tutti i regali fatti fino ad allora. Lo fece nel modo peggiore. Mandò la morte sulla terra a prendere Anna, seduta sulla sua poltrona: fissava il mare.

Farfalla

Questa poesia ha partecipato al concorso nazionale di poesia “Dantebus.”

Battito d’ali leggero
sinuoso il tuo volo,
di mantello colorato vestita
sulla brezza ti poggi.
In vita precedente nato bruco
ora corpo mutato
di metamorfosi memoria smarrita.
In direzione dell’orizzonte vai
ignoto è il tuo percorso
luce la tua meta.
Turbamento tra simili
animo inquieto,
ali cingono il corpo
anima infonde coraggio,
splendi.

Giovanni Verga

Tenevamo gli occhi fissi nel cielo, e mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l’epidermide delle nostre mani e si abbracciassero nei nostri sguardi che si incontravano nelle stelle.

Irène Némirovsky

E là, in seguito, trovavo le sue lettere, perché eravamo nell’età in cui si risveglia quel desiderio reciproco che né la presenza né le carezze possono saziare: non appena ci si separa, ci si scrive; è un modo per continuare a baciarsi.

Film parlato

Philip Roth

Chiudi tutte le porte, prima e dopo. tutti i modi di pensare della gente, lasciali perdere. Tutto quello che chiede la meravigliosa società? Come siamo messi socialmente? “Dovrei, dovrei, dovrei?” Al diavolo tutto questo. Quello che dovresti essere, quello che dovresti fare, tutto questo, beh, uccide ogni cosa.

La macchina umana

Guy de Maupassant

Sei innamorato, – ripeté Saval. – No. questa ragazza mi turba, mi seduce, m’inquieta, mi attira e mi spaventa. Diffido di lei come d’una trappola, e ho voglia di lei, come del gelato quando si ha sete.

Yvette