Tramonto

Toh un tramonto.
I tramonti piacciono a tutti.
Non sono come le albe, non hanno bisogno di una sveglia anticipata o di una nottataccia per essere ammirate.
Arrivano in fretta, basta aspettarle, anzi sono loro ad aspettare te.
Puoi avere qualsiasi stato d’animo.
Puoi essere triste: leggerai tristezza in quei colori.
Puoi essere felice: leggerai felicità  negli stessi colori.
Ma disintossicato dagli stati d’animo ti perderai nei colori così diversi fra loro, ma uniti da una linea invisibile.
Mescolati su di una tavolozza a spirale, le linee più esterne dai toni caldi ti spingono verso il centro: posto in cui i grigi trattengono il pensiero.
Non puoi evitare – con lo sguardo – di saltare da un angolo all’altro di questa opera d’arte della natura frettolosa di autodistruggersi.
Ecco, il problema dei tramonti è la fretta.
Hanno troppa fretta di farti rimanere a bocca aperta per scomparire l’attimo successivo.
Non regalano mai il tempo di abituarsi a loro, e mentre cerchi di cogliere una sfumatura, un dettaglio, hanno già  cambiato tutto o sono scomparsi.
Così sarai costretto ad attendere il tramonto del giorno dopo, ma sarà  diverso, non sarà  lo stesso e si prenderà  gioco di te nuovamente.
Sì è proprio la fretta di mutare a rendere il tramonto magico e mai banale.
Chissà  se anche gli umani avessero questo dono cosa succederebbe.

Suicidio

Un uomo alto, forte, vigoroso, pieno di vita.
Un uomo capace di esaudire – con la forza del lavoro – i propri desideri.
Un uomo pieno di luce, dentro, in grado di dare luce, fuori.
Cielo sereno sopra di lui, aria limpida intorno a lui.
All’improvviso o lentamente, non si sa: le nubi.
Il buio si appropria dello spazio attorno, prima totalmente nitido.
Il fumo nero e denso riempie le narici, rallenta il respiro, ingombra i polmoni.
Un grosso zaino – carico di pietre – pesa sulle spalle incapaci di sostenere un peso mai immaginato.
I volti – prima amici – trasformati in ritratti da scrutare da lontano, irriconoscibili.
I ricordi – in precedenza locomotive trainanti la gioia di affrontare le giornate – totalmente alterati o trasformati in maschere inespressive.
Come un arcobaleno si dissolve alla luce del sole, così un uomo viene cancellato da se stesso. 
Immagino possa essere questo l’inizio della fine di una persona.
E non parlo della fine fisica, naturale e inesorabile per tutti, no.
Bensì di quel senso di impotenza, incapacità , frustrazione, isolamento, tristezza, buio.
Quella convinzione – sbagliata – di non poter più risolvere nulla con la forza del proprio essere.
Come una goccia di nero petrolio inquina – espandendosi – un intero contenitore d’acqua limpida, così il senso di immobilità , partendo dal centro dello stomaco, si propaga – come un cancro – verso ogni cellula dell’uomo.
E tutto questo convince, la mente prima e l’anima dopo, a trovare una sola ed unica soluzione.
La soluzione più estrema, duratura e liberatoria per l’animo di quel pover’uomo.
La morte tramite il suicidio.
Reso totalmente cieco dalle sabbie mobili in cui è sprofondato, dove trova quell’attimo di spietata lucidità , tale, da infondere in sé il coraggio per annientarsi, annichilirsi, distruggersi?
Quali pensieri traboccano dalla sua testa nei minuti precedenti?  
E se quell’uomo, con questo gesto folle privo di qualsiasi logica, riuscirà  ad alleviare i brividi costanti, duraturi, impietosi che lo tenevano imprigionato nella gattabuia della sua mente, cosa ne sarà  di chi quel gesto potrà  e dovrà  solo subirlo?
Chi rimane si ritroverà  all’improvviso con la faccia a due centimetri da un mastodontico autocarro d’acciaio lanciato a tutta velocità  su di sé.
L’impatto sarà  inevitabile – in pieno viso – e il corpo verrà  scaraventato a cento metri più in là , martoriato.
E farà  talmente male da rimanere intontiti per chissà  quanto.
Rimarrà  una ferita sempre aperta in cui il tempo – spietato e cinico – infilerà  le sue dita sporche di alcol puro solo per rinnovare e alimentare il dolore.
Chi affronterà  il giorno dopo, dovrà  scontrarsi con la frustrazione, il senso di colpa, l’incredulità  di non aver visto, notato il sole tramontare alle spalle di quell’uomo.
Chi dovrà  continuare a vivere, dovrà  farlo con il cuore ricoperto da un grosso strato putrido di nero carbone, denso, sporco, impenetrabile.
Chiunque gli abbia voluto bene, lo abbia amato, sarà  costretto a guardarsi allo specchio, scorgendo la propria immagine riflessa: ostruita dall’ombra dell’impotenza di non averlo potuto aiutare prima e non poter rimediare dopo.
Chi si macchia di comportamenti immondi può essere acciuffato, giudicato e punito, ma chi rivolta contro se stesso la furia più cieca deve essere compreso, perdonato e ricordato.
Così come dovrà  perdonarsi – per colpe inesistenti – chi si porterà  dietro il ricordo di un uomo  – guida per altri uomini – presente, ormai, solo nei ricordi.
Perché se tragedia deve essere: rimanga isolata.
Perché se tragedia deve essere: non si porti dietro anche la morte dell’anima di chi, quella tragedia, l’ha subita come una doccia fredda chiuso all’interno di un luogo apparentemente sicuro.
Perché se tragedia deve essere: sia reinizio di vita nuova ripulita dai sensi di colpa.