Un giorno come un altro

Trovarsi in luoghi in cui si è costretti a stare forzatamente vicini non ha sempre accezioni negative.
Gruppi inamovibili di sedili uno a fianco all’altro creano un microcosmo capace di rappresentare degnamente una comunità  eterogenea.
Prestando un po’ di attenzione si può giocare a riconoscere chi si ha davanti, chi è, cosa fa o cosa sta pensando.
E’ un gioco divertente anche se è un’intrusione non richiesta da nessuno.
Il personaggio più facile da identificare è il signore alla mia estremità  sinistra.
Il professionista sempre in giro mentre torna dalla famiglia.
Veste con sicurezza la sua divisa d’ordinanza, giacca sportiva portata sul jeans blu scuro, sposato, si nota la fede portata sull’anulare sinistro, padre di due figlie, rivelatore lo sfondo del telefono mentre legge l’Economist.
I suoi pensieri urlano ad alta voce:
“in questi giorni di festa dovremmo fatturare di più”,
ho intravisto un report delle scorte di magazzino proiettato sul portatile lasciato in bella vista sul tavolino davanti a lui, beni conservati in picchiata quindi fatture in più da monetizzare.
Forse è questo il motivo del sorriso spuntato sul viso, come un fungo nato dopo le piogge di settembre, mentre studia il grafico.
Nella fila destra che anticipa la mia, il posto è stato assegnato ad una ragazza.
E’ un posto strategico per chi come me non riesce a fare a meno di guardare nella vita degli sconosciuti capitati per caso sotto il mio naso; posso osservare tutto senza farmi notare, senza pubblicizzare l’intrusione.
Il manuale di psicologia spicciola scritto da “noartri” ed edito dalla casa editrice “luoghi comuni s.r.l.” la definirebbe narcisista.
I pantaloni maculati di colore nero su sfondo nero portati senza alcun sostegno disegnano il corpo privo di imperfezioni, ma necessitano ad ogni movimento di essere sostenuti o rimessi al loro posto.
Un’operazione da fare esclusivamente in piedi in cui le ore passate in palestra sono ben rappresentate, ma preferisco fermarmi qui con la descrizione del movimento, rimango pur sempre un gentiluomo.
Sulla testa una coroncina dal lungo pelo verde, senza alcuna utilità  pratica, ma indubbio quello di richiamare l’attenzione.
Le unghie curate, disegnate, ornate, ma troppo lunghe per usare agevolmente il telefono.
L’aggeggio elettronico mai abbandonato è protetto da una cover, sulla quale è stampata una foto del suo viso abbronzato con sfondo il mare azzurro cornice delle vacanze estive appena superate.
Sullo schermo scorrono gallerie zeppe di autoscatti (lo so adesso va di moda dire selfie ma volete mettere il piacere di usare una parola in italiano), social in cui l’unico soggetto è se stessa, chat usate esclusivamente per trasmettere brevi video di lei in primo piano.
Avete ragione forse sono troppo duro con questa giovane ragazza, in fin dei conti ha il viso pulito e alla sua età  deve ancora completare di riempire la scatola personale di sicurezza di se, svuotandola preventivamente dalle fragilità .
Come non detto.
Ha appena finito di truccarsi, si è scattata l’ennesima foto e l’ha inviata a due ragazzi differenti ma con lo stesso testo:
“amore non vedo l’ora di vederti, sto arrivando”.
Chissà  se passerà  il natale con la propria famiglia, sicuramente parte del tempo sarà  occupata a scartare regali.
Dietro la narcisista è seduta una donna giovane, non ho idea di quale lavoro possa fare, non ha segni distintivi, ma sta passando un periodo duro.
Si trova nella fase in cui la vita ti mette alla prova, ti regala, ed essendo natale non poteva scegliere periodo migliore, la sofferenza dell’anima legata all’amore.
Legge: “Se fa male non è amore autrice Montse Barderi”.
No, non è una lettura usata per occupare il tempo.
Il segnalibro, un biglietto prestampato con su scritto “buon natale mamma”, si trova oltre la metà , le pagine le rilegge più volte, sembra volerle studiare, memorizzare.
Indossa un pantalone troppo comodo per essere elegante e la felpa larga nasconde la visibilità  di qualsiasi forma corporea possa celarsi sotto di lei.
Il colore è unico: nero.
I capelli lunghi sono raccolti alla rinfusa, il viso struccato tradisce notti passate insonni ad ascoltare i brani più tristi mai scritti con l’intento di non schivare il dolore, ma di passarci dentro per anestetizzarlo.
Gli occhi e i lati delle labbra disegnano curve verso il basso mentre deglutisce qualche liquido immaginario.
Avrei voglia di abbracciarla per regalarle qualche istante di calore umano, ma questo oggi non succederà .
Tre persone, così diverse, hanno un denominatore comune fra di loro e con il resto del gruppo di cui anche io faccio parte: passare il natale lontani dalla quotidianità  di tutti i giorni.
Natale.
Cosa sarà  mai il natale se non un giorno come un altro, ma con qualche variante.
Un giorno in cui non si lavora e si mangia seduti attorno a tavoli allungati per l’occasione.
Un giorno dalle strade sgombre, senza traffico e senza fretta.
Natale è un pretesto, una motivazione.
Lo stratagemma per andare a trovare genitori, parenti o amici che normalmente non si ha mai il tempo di vedere.
La scusa per farsi regali, per essere costretti a trasformare le parole in fatti.
Natale è l’attenuante generica usata per azzerare tutti quei “ti voglio bene” accumulati nella mente e non spediti al giusto indirizzo.
Abbiamo bisogno di una motivazione, di una convenzione per riabbracciare le persone importanti.
Natale è un coordinatore eccellente; riesce a muovere masse di persone, merci e sentimenti senza dissipare energie.
Natale è anche il giorno di massima ipocrisia, di sorrisi buttati qua e la solo perché si è “tutti più buoni”.
Natale è un amplificatore.
Amplifica vuoti e crepacci, trasforma il nero in nero profondo, costringe, fermando tutti e estraendoli dalla routine di tutti i giorni, a guardarsi nello specchio che riflette le vesti logore indossate dalla propria pace interiore.
Natale è un bullo, a volte fa finta di non vederti, altre ti colpisce in pieno viso senza usarti la cortesia di ripagarti per sdebitarsi.
Buon natale.

L’autunno

Ventitré settembre duemiladiciannove, nove e cinquanta, lunedì mattina.
Gli astronomi dicono sia stato il momento preciso in cui l’equinozio d’autunno è arrivato ed ha scalzato l’estate.
Come un treno merci in corsa colmo all’inverosimile l’ha colpita frontalmente, l’estate ormai morente, e l’ha scaraventata lontano.
Persa in chissà  quale discarica o profondo pozzo.
Senza alcun rispetto, privo di un minimo di delicatezza, cortesia, incurante di qualsiasi norma sulle buone maniere, l’autunno ha preso il posto dell’estate in barba a tutto quello cui abbia potuto regalare, donare o concedere fino a qualche ora prima.
Un bullo di periferia dallo sguardo torvo.
Ti addormenti con gli occhi pieni di luce, il tepore sulla pelle, la pace nelle orecchie e ti risvegli con un pugno nello stomaco: strattonato all’improvviso in piena notte.
Apri gli occhi senza vedere quasi nulla.
Li stropicci pensando di essere ancora addormentato: “forse conviene lavarsi il viso”.
Spalanchi ogni finestra sperando essere solo un brutto film: quello presentato questa mattina.
Invece no, nulla.
E’ tutto vero.
Tutto è stato trasformato, ancora, un’altra volta, ciclicamente, senza stancarsi mai.
Dove prima c’erano secchiate di colori ora non c’è più nulla.
Dove prima la vista non riusciva a mettere a fuoco pezzi di natura tanto distanti, ma nitidi, ora tutto è mutato, nascosto.
Una valanga di grigi ha coperto ogni dettaglio.
Ci si ritrova a dover distinguere toni diversi di uno stesso colore.
L’azzurro del cielo, sostituito nel momento di massima luce, da un tenue grigio chiaro.
Interi boschi nascosti da bui nuvoloni grigio scuri: quasi neri.
La vista totalmente oscurata da un mantello con l’ingiusta capacità  di rendere tutto uguale.
E se tutto questo non fosse abbastanza, l’inizio della nascente stagione ha deciso di voler lasciare il segno nei ricordi, strafare, aggiungendo anche la pioggia.
Una perfezionista, nella sua totale mancanza di empatia.
Un paesaggio quasi bieco, triste, monotono, annacquato. 
Anche la gente è stata contagiata: ora chiusa nelle spalle e nei pensieri, lo sguardo basso, coperta da strati di indumenti caldi a proteggere e confortare.
Si cerca nel tepore artificiale, quella mano sulla spalla capace di rincuorare e promettere l’arrivo di una nuova estate, dove tutto è più semplice, facile e a fuoco.
Si cerca, rovistando nei ricordi appena consolidati, le emozioni frutto di tanta spensieratezza:  ora abbandonate dietro la porta, al freddo.
Ma il pugno in faccia scagliato da questo nuovo inizio, l’autunno, con lo scopo di riportare tutti nella più viva quotidianità , dopo i bagordi estivi, ha un pregio.
Il pregio di nascondere, mascherare, appena passata la forza e la voglia di volersi imporre, i nuovi colori caldi: una marea di giallo, arancione, marrone nascosti dietro l’angolo o sotto ogni pietra.
Il pregio di regalare boschi variopinti da foglie fluttuanti e colorate capaci di riscaldare gli animi con la bellezza della vista.
Un dipinto differente da notare solo voltando lo sguardo in direzioni diverse.
Il pregio di riuscire a rammentare l’esistenza della bellezza nonostante sia stata preceduta dalla cupezza del monotono grigio.
Il pregio di riuscire a trasformare se stesso da brutto anatroccolo a splendido cigno nel pieno della sua maestosità .
Perché è così: nulla è davvero brutto, nero, cattivo e incapace di cambiare – sempre. –
O forse si?