L’auto

L’auto è una piccola fortezza.
Un mezzo con la forza di portarti lontano dai pericoli, di farti scappare dai problemi o di portarti sui problemi per farteli affrontare con più determinazione.
Un luogo sicuro in cui rintanarsi quando se ne sente l’esigenza.
Sei consapevole non appena lo sportello è chiuso, di essere solo ma in buona compagnia (non sempre) di se stessi, dei propri pensieri.
È un luogo magico l’abitacolo della propria vettura.
Uno dei pochi posti in cui si potrebbe quasi dire: “sono a casa”.
Riconosci ogni oggetto al suo interno.
Ad un occhio disattento, quegli oggetti possono sembrare abbandonati lì per caso, ma in realtà  ci sono per un motivo preciso.
Un motivo conosciuto solo da te.
Tu solo sai perché hai deciso di promuoverli come prodotti indispensabili da avere a vista d’occhio, da poter afferrare con un solo gesto della mano.
La notte o mentre piove sono i due momenti ideali per starsene su quel sedile, almeno per me.
Momenti entrambi capaci di oscurare la luce esterna annebbiarla, per lasciare la mente libera di frugare nel pozzo delle proprie sensazioni.
Tutto sembra disegnato, progettato per creare l’atmosfera giusta per invertire il flusso delle emozioni.
Invece di riceverle dall’esterno (a volte subirle) lasciare che defluiscano dall’interno, quasi per liberarsene.
Così questa mattina.
Piccole gocce di pioggia rimbalzano senza sosta sul vetro.
Disegnano minuscoli poligoni informi, regalano la sensazione di offuscamento, deformano i contorni del mondo esterno, tratteggiano piegando senza rispetto i fasci luminosi delle luci artificiali.
La strada al lato scorre come tanti piccoli fermi immagini, brevi momenti della durata di un attimo, un lungometraggio senza audio, ma chiaro da interpretare – tutti occupati a proteggersi, coprirsi, non mostrarsi. –
Così fa il papà  con in braccio il proprio figlioletto per ripararlo dal freddo.
Così fa la coppia di vecchietti mano nella mano attenti ad aiutarsi a vicenda nell’attraversare la strada con quel tempaccio arrabbiato.
Nel frattempo, all’interno della macchina Renato Zero canta: “Non cancellate il mio mondo”.
Il tempo scorre lento o l’impressione dello scorrere è svogliato, ovattato.
Le premesse per un momento di pura malinconia sembrano esserci tutte, sembra il set perfetto per sfogare momenti nostalgici.
La piccola voce interiore dice la sua: 
“dai sfogati, piangi, disperati, richiama alla mente i ricordi più belli e usali come cilicio contro di te, vedrai ti sentirai meglio.”
A volte è meglio non ascoltarla quella voce, ha lo scopo unico di accelerare la zattera in balia del vortice diretto verso il buco nero al centro della tristezza.
Ma fortunatamente non è sempre così.
Perché quella fortezza in cui ti trovi, la minuscola casa mobile trasformata a tua somiglianza ha lo scopo di ricordarti di essere al sicuro, protetto.
Trovarsi al riparo dalla pioggia, dargli le sembianze di piccoli dipinti mobili, avere l’accompagnamento di melodie sempre diverse è un modo per convincersi che:
“qualunque cosa accada fuori, lì dentro si è al sicuro, si è protetti, si è al caldo, ci si trova nel posto disegnato da noi stessi per essere più vicini al nostro essere sereni”.
Perché tutti hanno momenti in cui inaspettatamente ci si trova a veder comparire all’improvviso, senza premesse, la trama di un film horror, ma in quei casi bisognerebbe avere la forza di entrare in macchina, accendere la radio e farsi un giro per la città , non per scappare, ma per sentirsi al sicuro.
Per sentirsi a casa.

La mancanza

Casa vuota.
L’orologio, alto sulla parete, controlla da bravo cane da guardia lo spazio attorno. 
Il suo ticchettio è l’unica melodia, continua e incessante, capace di tenere alta l’attenzione di chi capita sotto il suo tiro.
È un maestro nel rompere il silenzio.
Silenzio amplificato dalle lancette incapaci di fermarsi, in corsa, sempre.
Il vuoto della stanza riempie ogni centimetro, ogni molecola d’aria, poggiandosi crudelmente sulla pelle.
Si percepisce, forte come un urlo di terrore, la sensazione di assenza.
Dicono chiamarsi mancanza.
È inevitabile.
Nasciamo con l’istinto primordiale di ribellarci all’abbandono.
I piccoli piangono cercando di riconquistare il porto sicuro tra le braccia dei genitori.
Per loro la mancanza di quel calore, di quel profumo equivale a rischiare la vita.
E’ dentro di noi, possiamo far finta non esista o possiamo convincerci di poterla gestire, ma è solo un illusione.
E nonostante questo, quando si ha la fortuna di scontrarsi contro qualcosa di bello, inimmaginabile, insperato, quella illusione può solo farsi da parte.
Lasciare il posto alla consapevolezza: disarmati nei confronti della mancanza.
Mancanza amplificata dal silenzio della stanza.
Mancanza amplificata dal beffardo gioco dei ricordi con l’unico compito di far bruciare la pelle.
Ti ritrovi dritto negli occhi il suono del suo sorriso: accecante.
Ti ritrovi ad ascoltare il bagliore della sua risata: calda.
Ti ritrovi a percepire sulla pelle il profumo del suo essere: unico.
Un insieme di così tante piccole bellezze da creare una meraviglia nel corpo di una donna.
E davanti a tutto questo non si può rimanere indifferenti, non ci si può non comportare come i piccoli privati delle braccia dei genitori.
No, nel momento in cui tutta quella bellezza non è più sotto gli occhi, a portata di mano, troppo lontana da non percepirne più il profumo, non si può non sentirne la mancanza.
Non si può non sentirsi smarriti.
Non si può non voler averla ancora lì davanti per rimanerne abbagliati, sempre, ogni volta di più.
No, non si può.

Trasloco

A prima vista può sembrare un contenitore inanimato.
Assume dimensioni, forme, colori diversi, ma rimane pur sempre un contenitore.
Quattro pareti, un tetto, una piccola apertura per oltrepassarlo ed ecco servita la prima definizione di casa.
Poi avviene di utilizzare quel contenitore: quotidianamente.
Diventa l’amico – sempre presente – di tutto ciò accade a chi quel contenitore lo vive, lo abita, a volte lo detesta.
Non giudica mai, protegge – quasi sempre – e tiene fuori ciò non vuoi venga mostrato.
E mentre i giorni passano, lo riempi di oggetti – diversi tra loro – alcuni con un grande significato, altri inutili.
La metafora della vita di tutti i giorni.
Lo personalizzi, lo trasformi, lo rendi tuo oppure a tua immagine, diventa una parte di te perché racconta te. 
Ci si può fare un viaggio in una casa, si può scorgere – senza farselo raccontare – chi è stato, chi è, e forse chi sarà  la persona contenuta in quel contenitore.
Ma senza preavviso la scatola diventa troppo stretta oppure il contenuto troppo ingombrante.
Ingombrante fino al punto da non andare più d’accordo con il contenitore: si scontrano, litigano; finché non si deciderà  di sostituirlo con uno più grande, piccolo o semplicemente diverso.
La decisione è ormai presa: qui non si può più restare.
“E’ tutto pronto, devo solo traslocare! “
Il momento in cui tutto cambia: il trasloco.
Pieni di speranze, aspettative, progetti, si usa questo momento per decidere cosa vale la pena far rimanere un ricordo e cosa invece è bene dimenticare.
“Ooh quanti ricordi questo oggetto, non ricordavo di averlo, nella nuova casa avrà  un posto in prima fila!”
“No, tu no, tu è bene finisca la tua vita terrena sul fondo di un cestino, ti porti dietro troppi ricordi negativi: devi essere dimenticato”
E con questo rituale si passa in rassegna ogni singolo oggetto, ricordo, pezzo di vita, prima di venire stipato all’interno di un grosso camion, con il compito – a volte ingrato – di riconsegnare – a noi stessi – ciò abbiamo deciso essere parte di noi.
Si mette nelle mani di alcuni sconosciuti qualsiasi la nostra storia, il nostro passato, i nostri ricordi.
Riponiamo una fiducia quasi incondizionata in queste persone.
Potrebbero distruggere tutto, potremmo ritrovarci con un pugno di mosche in mano se solo lo volessero o se il destino decidesse in tal modo.
Non è questo il caso.
Tutto avrà  una nuova collocazione all’interno del nuovo contenitore, compresa l’importanza data a quel ricordo, a quell’oggetto, a quel frammento di passato.
Perché questo siamo: siamo futuro poggiato su uno strato – quasi solido – di passato.
Perché potremo traslocare infinite volte, ma la nostra storia, le nostre esperienze, il nostro essere ci seguirà  per dirci da quale punto ricominciare, senza dover fare passi indietro e ripercorrere gli stessi medesimi pezzi sbagliati di storia: errori.

Casa

Capita di passare molto tempo in un posto.
Sempre lo stesso.
Ti ci abitui, diventa familiare.
Usi la solita panchina.
Cerchi di fermarti nel solito angolo.
Parli con le stesse persone divenute quasi familiari.
Crei il tuo rituale per sentirti al sicuro, protetto, a casa.
Una manciata di minuti della giornata saranno impiegati per stare lì.
Così per spezzare la frenesia delle giornate questo angolo si trasforma, per caso, nel polmone artificiale che ti permetterà  di respirare una volta in più.
Ma all’improvviso, senza alcun motivo apparente, si svuota, perde il suo scopo.
Ti ostini, ci torni più volte sperando sia solo un caso sporadico l’essere vuoto.
Alla fine devi arrenderti.
Quel posto è vuoto e non si riempirà  nuovamente.
Lo fotografi, lo memorizzi, e lo custodirai dentro come il posto che ti ha fatto sentire a casa.