Una mamma si riconosce da come ti guarda, con gli occhi sorridenti, sempre, anche se l’hai offesa un momento prima oppure l’hai scacciata un momento dopo, perché non ti guarda con la vista, ma ti guarda con l’amore che straborda dagli occhi.
Una mamma si riconosce dal profumo che emana, sa di buono, sa di quell’ultimo biscotto preparato prima che lasciassi la sua casa per affrontare l’oceano della tua vita. Sa della certezza nell’amore per te quando una fragranza, incontrata per caso, scrollerà con forza l’armadio dei ricordi di lei e come un’onda ne sarai travolto.
Una mamma si riconosce dal suono della sua voce, quella imparata ad ascoltare prima che ti affacciassi alla vita per diventare uomo. La voce che ti ha rassicurato quando le tenebre oscuravano la vista e non avevi altro per sfuggire alla paura. La voce sempre pronta ad ascoltare ciò che non dici, illudendoti di non farla preoccupare, ma che sa sempre se un mostro, sotto il letto, ti sta tormentando.
Una mamma si riconosce dal sapore dei suoi baci, sempre presenti, sempre pronti a guarire la ferita inferta dalla caduta più rovinosa che la vita possa infliggerti. Il bacio della mamma è unico, non può essere comprato per trenta denari perché non potrebbe tradirti mai.
Una mamma si riconosce dalla carezza che ti regala, perché la carezza di una mamma è ruvida, come la pelle delle sue mani, consumate da una vita passata a usarle per il tuo bene, usate per rimetterti in piedi dopo essere caduto e offerte come rifugio quando tutto intorno a te è mancato. Per questo la carezza di una mamma non si sente sul viso, ma si vive con il cuore.
Così si riconosce una mamma e oggi di tanti anni fa ne è nata una: la mia.
L’altra Grace (Alias Grace) è una miniserie televisiva canadese diretta da Mary Harron ed intepretata da Sarah Gadon. È basata sul romanzo omonimo di Margaret Atwood del 1996 ed adattato da Sarah Polley.
Una promessa infranta lacera il cuore quanto un coltello.
Il sole dopo aver compiuto il suo lavoro quotidiano si è congedato. Ha lasciato il posto al suo fratello gemello siamese: la notte. Continuano a rincorrersi senza acciuffarsi quei due, non si sovrappongono, non si infastidiscono l’un l’altro, ma non riescono ad incontrarsi pur essendo legati indissolubilmente. Il manto di oscurità regalato dalla notte scurisce l’esterno del mondo e gli ambienti interni delle case. Le camere, private della luce, assumono tutte la stessa forma, indefinita, accomunate dall’impossibilità di distinguerne i confini, dove è infattibile notare i suppellettili; si può persino dimenticare l’oggetto privo di importanza poggiato nell’angolo più remoto del mobile alto al centro della parete. Ma un luogo comune recita: “perdendo un senso si acuiscono tutti gli altri”. E dopo una giornata complessa, si sente la necessità di spegnere qualche senso per dare vigore agli altri o meglio, si può decidere di abbassare il volume di tutti i sensi, solo per riprendere a respirare lentamente. La necessità di far emergere dal profondo, far defluire, cacciando via con forza: problemi, malumori, negatività , diventa un’esigenza impellente. Per questo motivo – rendere i sensi innocui – sul mobile poggiato alla parete opposta del letto si posa una candela, accesa. Una piccola fiamma capace di dare la quantità giusta di luce per riscaldare i colori scuri dell’ambiente. Mai immobile, disegna ombre in continua evoluzione, si inseguono, danzano, giocano tra loro. Il profumo rilasciato accarezza dolcemente le narici. Tutto concorre per creare un angolo protetto in cui nulla potrà depistare il senso di pace ricercato. E funziona. La pace arriva, il respiro rallenta, i muscoli si rilassano, la mente smette di correre, l’anima ritrova l’amicizia del cuore. Così, disteso sul letto, con le mani dietro la nuca, le gambe poggiate una sull’altra, senza nessun rumore in grado di disturbare la quiete creata, ascolti il racconto fatto da quella piccola fiamma. Pensi a cosa vuole dirti. Pensi che la sua vita non è poi così diversa dalle vite di tutti. Lei per vivere, per donare quel senso di pace, deve bruciare, deve usare l’ossigeno, esaurire lo stoppino, consumare la cera. Quella candela dopo essere nata avrà a disposizione un tempo finito per vivere, e bello per quanto potrà essere, dovrà consumare qualcosa, dovrà usare ciò che non le appartiene e alla fine si spegnerà , inesorabilmente. È il racconto della vita. La differenza si troverà nel modo in cui avrà consumato i suoi elementi. Se bruciando avrà regalato pace, armonia, serenità allora non sarà stata una candela sprecata. Così come una vita non sarà stata sprecata se sarà stata vissuta senza sprecare il bello donato da ogni singolo giorno. Perchè ogni giorno qualcosa di bello serve trovarlo, altrimenti accendere una candela sarà stato solo tempo perso.
Un uomo alto, forte, vigoroso, pieno di vita. Un uomo capace di esaudire – con la forza del lavoro – i propri desideri. Un uomo pieno di luce, dentro, in grado di dare luce, fuori. Cielo sereno sopra di lui, aria limpida intorno a lui. All’improvviso o lentamente, non si sa: le nubi. Il buio si appropria dello spazio attorno, prima totalmente nitido. Il fumo nero e denso riempie le narici, rallenta il respiro, ingombra i polmoni. Un grosso zaino – carico di pietre – pesa sulle spalle incapaci di sostenere un peso mai immaginato. I volti – prima amici – trasformati in ritratti da scrutare da lontano, irriconoscibili. I ricordi – in precedenza locomotive trainanti la gioia di affrontare le giornate – totalmente alterati o trasformati in maschere inespressive. Come un arcobaleno si dissolve alla luce del sole, così un uomo viene cancellato da se stesso. Immagino possa essere questo l’inizio della fine di una persona. E non parlo della fine fisica, naturale e inesorabile per tutti, no. Bensì di quel senso di impotenza, incapacità , frustrazione, isolamento, tristezza, buio. Quella convinzione – sbagliata – di non poter più risolvere nulla con la forza del proprio essere. Come una goccia di nero petrolio inquina – espandendosi – un intero contenitore d’acqua limpida, così il senso di immobilità , partendo dal centro dello stomaco, si propaga – come un cancro – verso ogni cellula dell’uomo. E tutto questo convince, la mente prima e l’anima dopo, a trovare una sola ed unica soluzione. La soluzione più estrema, duratura e liberatoria per l’animo di quel pover’uomo. La morte tramite il suicidio. Reso totalmente cieco dalle sabbie mobili in cui è sprofondato, dove trova quell’attimo di spietata lucidità , tale, da infondere in sé il coraggio per annientarsi, annichilirsi, distruggersi? Quali pensieri traboccano dalla sua testa nei minuti precedenti? E se quell’uomo, con questo gesto folle privo di qualsiasi logica, riuscirà ad alleviare i brividi costanti, duraturi, impietosi che lo tenevano imprigionato nella gattabuia della sua mente, cosa ne sarà di chi quel gesto potrà e dovrà solo subirlo? Chi rimane si ritroverà all’improvviso con la faccia a due centimetri da un mastodontico autocarro d’acciaio lanciato a tutta velocità su di sé. L’impatto sarà inevitabile – in pieno viso – e il corpo verrà scaraventato a cento metri più in là , martoriato. E farà talmente male da rimanere intontiti per chissà quanto. Rimarrà una ferita sempre aperta in cui il tempo – spietato e cinico – infilerà le sue dita sporche di alcol puro solo per rinnovare e alimentare il dolore. Chi affronterà il giorno dopo, dovrà scontrarsi con la frustrazione, il senso di colpa, l’incredulità di non aver visto, notato il sole tramontare alle spalle di quell’uomo. Chi dovrà continuare a vivere, dovrà farlo con il cuore ricoperto da un grosso strato putrido di nero carbone, denso, sporco, impenetrabile. Chiunque gli abbia voluto bene, lo abbia amato, sarà costretto a guardarsi allo specchio, scorgendo la propria immagine riflessa: ostruita dall’ombra dell’impotenza di non averlo potuto aiutare prima e non poter rimediare dopo. Chi si macchia di comportamenti immondi può essere acciuffato, giudicato e punito, ma chi rivolta contro se stesso la furia più cieca deve essere compreso, perdonato e ricordato. Così come dovrà perdonarsi – per colpe inesistenti – chi si porterà dietro il ricordo di un uomo – guida per altri uomini – presente, ormai, solo nei ricordi. Perché se tragedia deve essere: rimanga isolata. Perché se tragedia deve essere: non si porti dietro anche la morte dell’anima di chi, quella tragedia, l’ha subita come una doccia fredda chiuso all’interno di un luogo apparentemente sicuro. Perché se tragedia deve essere: sia reinizio di vita nuova ripulita dai sensi di colpa.
Un lago: fuori dai confini. Una fila d’anatre: spezza lo sguardo. Due cigni: osservano ciò che visibile non è. Il pensiero: in una sola direzione. Il cuore dice all’anima: respira.