Tormenti

Occhi vagano tra le tenebre
alla ricerca di luce,
l’assenza di rumore
amplifica le urla dell’anima,
i pensieri compressi:
sono schiacciati dal peso della ragione.
Le emozioni
rotolano sul pavimento dell’incertezza.
La pace,
smarrita,
alla ricerca di se stessa,
dichiara guerra
ai sentimenti caduti nella palude
dell’infelicità .

Puzzle

Non amo i rompicapo o gli indovinelli, non riesco a risolverli perché tendo a immaginare soluzioni più criptiche del necessario.
Non mi piace giocare a carte, non sono competitivo e mi annoia.
Non amo i puzzle.
Lo trovo un passatempo noioso, indisponente, quasi stressante.
Scontrarmi con l’idea di dover trovare il modo giusto di comporre una figura, indipendentemente dall’essere composta da quattro o da un milione di pezzi, non mi attrae.
Preferisco fare altro, tanto altro, ma come tutti credo, anche io ne ho fatti alcuni.
A volte per il piacere di provare, altre per il dovere di esserci e condividere il momento.
Per risolvere un puzzle ognuno usa una propria strategia.
C’è chi divide i tasselli in tanti mucchietti dallo stesso colore.
C’è chi divide i tasselli in tanti mucchietti raggruppando le macro-aree dell’immagine finale.
C’è chi parte dai bordi per allineare il lato dritto privo di curvature.
C’è chi inizia risolvendo un particolare centrale molto evidente ricostruendolo fino ai bordi.
Tralasciando ora la strategia d’attacco ciò che conta è il risultato: riuscire a giungere alla figura completa.
I puzzle nascono con l’aiuto incorporato, per essere costruiti si può e si deve seguire l’immagine d’esempio rappresentata sulla scatola o nel libretto delle istruzioni.
Una piccola certezza dei blocchi di partenza e la sicurezza di quale sarà  il trofeo ottenuto una volta aver superato la bandiera a scacchi.
Ora immagino ci sarà  tra di voi l’appassionato temerario risolutore di puzzle capace di gareggiare con la benda sugli occhi, senza usare l’aiuto, senza dare mai un’occhiata all’immagine completa.
Sei una mosca bianca, questo racconto non vale per te, sei dispensato.
Per il resto della popolazione, la parte complessa della costruzione la si incontra quando l’immagine guida non c’è, non esiste, non viene messa a disposizione.
È come avere una scatola totalmente bianca o priva di fogli illustrativi.
Se si vuole esagerare con la difficoltà  si può aggiungere la possibilità  di non avere un numero finito di tasselli, con la capacità  di variare la quantità  dei pezzi durante la costruzione.
Il puzzle dei puzzle.
Non si ha idea del numero finale degli incastri a disposizione e non si possiede un modello da seguire.
Ho l’impressione di sentire delle urla provenire dal fondo della sala:
“Non esiste un puzzle così, non può essere prodotto, venduto, comprato nè risolto.”
Eh no amico mio, qui ti sbagli, devo contraddirti.
In realtà  è un rompicapo esistente e tentiamo di risolverlo tutti noi, tutti i giorni.
Lo facciamo al lavoro.
Giornate passate a trovare l’espediente, la soluzione, il tassello mancante per non bloccare gli ingranaggi di una produzione, di un processo, di un’idea cosicchè al termine sia tutto perfetto e fatto a regola d’arte.
Lo facciamo con noi stessi.
Nasciamo e siamo programmati per cercare il pezzo giusto, quello capace di incastrarsi con noi, di regalarci serenità , felicità , ma come con per i puzzle a volte si è fortunati con la prima tessera altre si dovrà  provare più volte.
Lo facciamo con il rapporto con gli altri.
Quest’ultimo è il puzzle dei puzzle.
Quello con la scatola totalmente bianca, priva di indizi e inconsapevole del numero dei pezzi utilizzati per risolvere l’arcano disegno.
Ore, giorni, mesi, anni passati a decifrare l’enigma del rapporto con chi ci circonda.
Si comincia con una strategia: inutile.
Si cambia angolo d’attacco: forviante.
Si passa ad un approccio razionale: lento.
Si decide di tentare un metodo emotivo: nulla di fatto.
Si va avanti così provando infinite opzioni diverse e nonostante questo capita molto spesso di non venirne a capo.
Ci si trova di fronte alla frustrazione di non avere un pezzo del puzzle coincidente con un altro.
Navighi a vista.
Cerchi con uno sforzo di immaginazione di presumere quale possa essere l’immagine finale.
Qual è il tassello mancante in grado di dare il via alla risoluzione del rompicapo, di spiegare le dinamiche incomprensibili del rapporto che si cerca di comprendere, di dargli un senso.
Fintantoché non c’è la svolta.
All’improvviso salta fuori la tessera mancante, quella più importante, la chiave di volta dell’intero mosaico.
Come per magia te la ritrovi davanti agli occhi: “puff”!!
Caduta a terra, finita sotto un tavolo, nascosta dietro le altre come lei.
Servita su di un piatto d’argento dà  inizio allo tsunami della risoluzione.
Dove prima c’era la nebbia ora compare il sole.
Dove prima c’era incomprensione ora tutto assume un senso logico, lineare, tale da dare una visione razionale anche a qualcosa di totalmente irrazionale come un rapporto tra persone.
Dove prima c’erano un ammasso di piccoli pezzi dalla forma irregolare ora prende forma una figura nitida, completa, limpida.
La confusione lascia il posto all’ordine, alla chiarezza, alla limpidezza.
Quel piccolo tassello mancante dona a tutto l’insieme un senso.
Il puzzle è risolto, l’immagine è completa.

L’auto

L’auto è una piccola fortezza.
Un mezzo con la forza di portarti lontano dai pericoli, di farti scappare dai problemi o di portarti sui problemi per farteli affrontare con più determinazione.
Un luogo sicuro in cui rintanarsi quando se ne sente l’esigenza.
Sei consapevole non appena lo sportello è chiuso, di essere solo ma in buona compagnia (non sempre) di se stessi, dei propri pensieri.
È un luogo magico l’abitacolo della propria vettura.
Uno dei pochi posti in cui si potrebbe quasi dire: “sono a casa”.
Riconosci ogni oggetto al suo interno.
Ad un occhio disattento, quegli oggetti possono sembrare abbandonati lì per caso, ma in realtà  ci sono per un motivo preciso.
Un motivo conosciuto solo da te.
Tu solo sai perché hai deciso di promuoverli come prodotti indispensabili da avere a vista d’occhio, da poter afferrare con un solo gesto della mano.
La notte o mentre piove sono i due momenti ideali per starsene su quel sedile, almeno per me.
Momenti entrambi capaci di oscurare la luce esterna annebbiarla, per lasciare la mente libera di frugare nel pozzo delle proprie sensazioni.
Tutto sembra disegnato, progettato per creare l’atmosfera giusta per invertire il flusso delle emozioni.
Invece di riceverle dall’esterno (a volte subirle) lasciare che defluiscano dall’interno, quasi per liberarsene.
Così questa mattina.
Piccole gocce di pioggia rimbalzano senza sosta sul vetro.
Disegnano minuscoli poligoni informi, regalano la sensazione di offuscamento, deformano i contorni del mondo esterno, tratteggiano piegando senza rispetto i fasci luminosi delle luci artificiali.
La strada al lato scorre come tanti piccoli fermi immagini, brevi momenti della durata di un attimo, un lungometraggio senza audio, ma chiaro da interpretare – tutti occupati a proteggersi, coprirsi, non mostrarsi. –
Così fa il papà  con in braccio il proprio figlioletto per ripararlo dal freddo.
Così fa la coppia di vecchietti mano nella mano attenti ad aiutarsi a vicenda nell’attraversare la strada con quel tempaccio arrabbiato.
Nel frattempo, all’interno della macchina Renato Zero canta: “Non cancellate il mio mondo”.
Il tempo scorre lento o l’impressione dello scorrere è svogliato, ovattato.
Le premesse per un momento di pura malinconia sembrano esserci tutte, sembra il set perfetto per sfogare momenti nostalgici.
La piccola voce interiore dice la sua: 
“dai sfogati, piangi, disperati, richiama alla mente i ricordi più belli e usali come cilicio contro di te, vedrai ti sentirai meglio.”
A volte è meglio non ascoltarla quella voce, ha lo scopo unico di accelerare la zattera in balia del vortice diretto verso il buco nero al centro della tristezza.
Ma fortunatamente non è sempre così.
Perché quella fortezza in cui ti trovi, la minuscola casa mobile trasformata a tua somiglianza ha lo scopo di ricordarti di essere al sicuro, protetto.
Trovarsi al riparo dalla pioggia, dargli le sembianze di piccoli dipinti mobili, avere l’accompagnamento di melodie sempre diverse è un modo per convincersi che:
“qualunque cosa accada fuori, lì dentro si è al sicuro, si è protetti, si è al caldo, ci si trova nel posto disegnato da noi stessi per essere più vicini al nostro essere sereni”.
Perché tutti hanno momenti in cui inaspettatamente ci si trova a veder comparire all’improvviso, senza premesse, la trama di un film horror, ma in quei casi bisognerebbe avere la forza di entrare in macchina, accendere la radio e farsi un giro per la città , non per scappare, ma per sentirsi al sicuro.
Per sentirsi a casa.

Viaggio

Il freddo è stato scalzato dal caldo torrido.
L’inverno messo ko dalla stagione più attesa dell’anno: l’estate.
Stagione capace di regalare aspettative, sogni, delusioni.
Dalla finestra dell’ufficio: le nuvole, intimidite dai prepotenti raggi del sole – rinvigorito dalla sicurezza del proprio essere iperattivo – si chiudono in sé a formare piccoli batuffoli di cotone vaganti senza alcuna meta. 
“Domani iniziano le tue vacanze?”
“Sì, finalmente, non vedo l’ora, sono così stanco, sento il bisogno di ricaricarmi e farmi qualche bel regalo.”
“Chi sono i tuoi compagni di viaggio?”
“Il compagno. Il più importante. Io.”
Mancano ventiquattro ore, l’indomani, dopo aver gettato qualche straccio in una valigia logorata dall’uso eccessivo, un aereo porterà  il signor X lontano dagli impegni scanditi da una agenda da rispettare.
Nel cuore la voglia di abbandonare – senza rimorsi –  la tristezza accumulata dalla serie di episodi negativi accaduti nell’ultimo periodo.
Ha scelto un posto qualsiasi, unica condizione: il mare.
Un uomo, descritto dal Sommo Poeta come: “nel mezzo del cammin di nostra vita” ha sentito la necessità  di regalarsi un film.
Ha deciso di voler rivedere il lungometraggio della sua vita, come fosse seduto in una cabriolet davanti lo schermo di un drive-in.
Sente la necessità  di guardarsi dentro, per una volta; troppe volte ha ignorato quella voce partire dal centro della pancia.
Come è riuscito ad accumulare così tanti errori?
Perché tutto è andato storto?
“Signore la sua carta d’imbarco, faccia buon volo.”
“Grazie, buon lavoro.”
Dal piccolo balcone della sua camera d’albergo, si intravede in lontananza, il profilo netto del cielo poggiato sul mare. 
Sembrano due liquidi incapaci di mescolarsi; due persone diverse, ma capaci di stare fianco a fianco, sempre.
Disfatta la valigia, dal telefono della camera programma la sveglia per il giorno seguente, non vuole perdersi il nascere del sole sul mare.
Lo stesso rituale ripetuto per una intera settimana: dopo essersi preparato, con il telo in una mano ed un libro nell’altra, va ad occupare una piccola duna di sabbia, un micro promontorio dona una prospettiva diversa al dipinto – mai immobile – osservato negli ultimi giorni.
Nelle orecchie la melodia continua delle onde infrante sulla sabbia.
Una distesa immensa d’acqua immobile fa da sipario al sole.
Lo tiene nascosto finché non deciderà  di mostrarsi, scaldando e illuminando con un grosso abbraccio, chiunque si trovi sotto il suo mantello.
Una miriade di piccoli riflessi dorati rimbalzano – come pietre lanciate da un bambino – sul manto azzurro.
Mister X è lì, vuole godersi quello spettacolo senza la possibilità  di interferire con la natura.
Vuole usare quell’immagine per rigenerare, per richiamare i ricordi degli episodi causa di quel male, di quella malinconia interiore portata sulle spalle per troppo tempo.
Rivede e rivive ogni istante, ogni episodio, riprovando le stesse emozioni di quelle originali, di quelle capaci di ferirlo, straziarlo, farlo cadere nuovamente a terra.
Ed è in quel momento, con quell’immobilità  del corpo, con quelle immagini variegate davanti agli occhi, con quel ripetere gli stessi gesti tutti giorni, che la natura gli sussurra la soluzione al suo dilemma.
Il suo errore è stato quello di non fare errori.
Subire passivamente le decisioni degli altri lo ha portato a sbagliare, irrimediabilmente.
Rimanere affacciato alla finestra, guardando la vita scorrere, con l’idea di poter fare sempre la cosa giusta senza fare nulla, lo ha portato all’errore più grande, dimenticare se stesso.
“Signore, mi spiace abbia interrotto la vacanza.”
“A me non spiace, ho una vita da cominciare a vivere.”
“Allora ha ragione, non la trattengo “
“La vacanza è finita. Vado a sbagliare.”

In braccio a mamma

E’ impossibile averlo perso.
Dove lo avrò mai lasciato?
Ho rovistato in ogni angolo di casa e non riesco a trovarlo.
Sarà  sicuramente in uno dei cassetti del piccolo mobile all’angolo.
Lì non guarda mai nessuno, anche la polvere lo ignora, ma ormai manca da perquisire solo lui.
E mentre sono alla ricerca dell’oggetto perduto salta fuori, dal nulla, una vecchia foto.
Una foto scattata con una macchina fotografica a rullino, stampata su carta e riposta in attesa di scatenare ricordi, emozioni.
E’ la fortuna di chi come me ha vissuto quegli anni ed ora può permettersi il lusso di ritrovare, per caso, pezzi di vita sparsi qua e là .
Le foto sono così, se ne stanno in agguato, quatte quatte in attesa di poterti aggredire, saltare al collo e morderti.
Un po’ di luce e sbam, ti danno un pugno nella pancia e smetti di respirare per un istante.
Le emozioni legate ad una foto sono come una valanga, puoi galleggiarci sopra, così come puoi esserne completamente sepolto.
Non è da meno questa.
Un bimbo in braccio alla sua mamma.
Una donna nel pieno della vita nei suoi anni più belli.
Una giovane donna con chissà  quali aspettative, desideri, speranze.
E’ molto strano vedere i propri genitori da giovani, sarebbe stato bello conoscerli, parlarci, uscirci insieme.
Chissà  se saremmo potuti essere amici o avremmo litigato con la stessa forza di oggi, tanto poi tutto passa, si sistema, senza rancore, volendosi più bene di prima.
Ma basta fare pensieri di questo tipo, c’è un oggetto da cercare e lui non vuole farsi trovare.

Giornata storta

Nascono così, per caso, quando meno te lo aspetti e nei momenti sbagliati, sempre.
Sono così inopportune, sleali, sgarbate da infastidire e far scuotere la testa persino alla persona più serafica del mondo.
Te ne accorgi immediatamente. 
Sono sufficienti le prime note della sveglia del mattino.
In quelle giornate storte, anche l’abituale melodia di sempre, il jingle scelto perché possa disturbare il meno possibile, il pezzo ascoltato milioni di volte con l’unico scopo di accompagnare uno dei momenti più delicati della giornata, assume toni sprezzanti.
Si prende gioco di te.
È lui, come ogni giorno, ma, di tanto in tanto, ti preannuncia la genesi della tempesta perfetta.
Assume il compito della bandiera a scacchi in una competizione sportiva.
Come un piccolo folletto cattivo entra dalle orecchie, corre verso il centro dello stomaco, fissa i suoi piedi ben piantati a terra, si porta le mani ai lati della bocca, e dopo un grosso respiro comincia a urlare: 
“preparati, oggi è la giornata storta, nulla potrà  farle conquistare una direzione diversa, opposta”.
Inizia, in questo modo strampalato, la battaglia che si concluderà  solo a sera inoltrata, quando le tenebre avranno coperto lo scempio appena trascorso. 
Ogni oggetto quotidiano, sempre amico, sempre fidato, si tramuta nel potenziale nemico pronto a pugnalarti alle spalle.
Ti ritrovi perciò a scontrarti con la tazzina del caffè. 
Si anima comandata da una forza sconosciuta e immolandosi si catapulta a terra in un lago di sangue, nero.
Il rasoio, sempre attento a coccolare con una dolce carezza la pelle del viso, quella mattina si rivolta contro, solcandolo. 
Lascia la sua inconfondibile firma, dal classico colore rosso vivo.
L’auto, pronta a sopperire ai ritardi nascosti dietro ogni angolo, ha deciso fosse il momento dello sciopero.
In ufficio, il telefono interrompe qualsiasi attività  solo per il gusto di farlo.
La biro, fedele compagna da tempo immemore, tenta il suicidio gettandosi nel vuoto dal quarto piano.
Ti irride allo stesso modo il primo boccone del pranzo. 
Il burlone ha nascosto nel suo interno una minuscola sfera infuocata solo per il gusto di farti smarrire, per il resto del pasto, il piacere di goderti i piaceri dei sapori.
In questo modo, continua, nonostante i tuoi incessanti sforzi per contrastare la serie di eventi infausti, la giornata brutta, sghemba, negativa.
La giornata dove tutto quello che può andare storto, andrà  peggio.
Non ci sono motivi apparenti del perché accada.
Succede.
Lo sperimentiamo tutti, chi più chi meno, e nessuno ne è esente.
Capita, capita e basta.
È come se l’universo sentisse la necessità  di riequilibrare una sorta di bilancia delle positività  e negatività .
Quando ti da qualcosa di bello, all’improvviso te lo ritrovi dinanzi a muso duro, pronto a recriminare la sua parte.
Eccoli, sono lì davanti a me, riesco persino ad ascoltarli mentre parlottano.
Una conversazione tra pari: 
“no mio caro, ora basta. 
È giunto il momento di restituire qualcosa”;
“mi hai dato delle emozioni, belle d’accordo, ma non posso restituirtele”
“non puoi o non vuoi?”;
“beh, forse entrambi”;
“allora mi riprendo qualcosa con la violenza e ti impongo una giornata brutta”;
“no ti prego, la giornata storta no”;
“ormai è deciso”.
In realtà , se ci penso realmente, sono piccoli episodi che accadono più spesso di quanto immaginiamo.
Ciò che cambia è la sensibilità  del momento in cui li viviamo.
A volte, siamo così felici da non riuscire a farci togliere quel sorriso stampato in volto, neanche con una cannonata.
Il problema, si pone quando così non è.
Quando la tristezza ha fatto capolino in quella giornata, definita storta, tutto il vissuto lo scambiamo, lo confondiamo con un masso lanciatoci contro con il solo scopo di colpirci violentemente, di farci stare talmente male, da regalarci la possibilità  di piangere, di sfogarci, di buttare fuori l’incontenibile. 
Forse, per non vivere altre giornate brutte, dovremmo trovare la forza di fare un passo a lato per evitare quel masso mentre ci sta piovendo addosso, evitando così di arrivare al punto di implodere.