Vuoto

Nella notte, vago senza meta incurante del nulla che circonda il corpo, con il freddo fedele compagno a indicarmi la via.
I sogni, una volta bambini felici occupati a giocare nel campo dei desideri, ora esseri assenti fuggiti in continenti di loro simili.
Il silenzio spegne i ricordi: plotone d’esecuzione delle speranze.
L’illusione di ritrovare un percorso conosciuto ha abbandonato la possibilità  di riuscirci.
Le braccia, autostrade lungo i fianchi, disegnano oscillando l’unico spazio occupato dal non essere qualcuno per nessuno.
L’assenza del mondo esterno ha riempito l’involucro lasciato vuoto da qualcosa che in passato era.
L’ombra, da sempre rappresentazione dell’essere visibile, mi ha tradito fuggendo con l’ultimo raggio di sole sbiadito fino a diventare tenebra.
Il vuoto ha preso il posto di ogni mancanza, e la mancanza è divenuta la rappresentazione dell’essere.
Il dolore – sentimento spento dalla malinconia – è incapace di ridare ossigeno a ciò che una volta era vita.
La tristezza, divenendo corpo e assumendo sembianze di uomo, ha sepolto la luce per far risplendere l’oscurità .
Quello che è stato, non è e non sarà , ma forse sarà  stato.

Natalia

Seduto sul lato passeggero perché ero troppo giovane per guidare, ma troppo grande per essere definito adolescente.
I finestrini della macchina aperti, il loro compito era rinfrescare il caldo giunto da qualche giorno su questo pezzo di terra chiamato casa.
La mia autista era una donna convinta di aver terminato parte dei suoi impegni con la natura.
Si parlava con serenità  di argomenti poco arguti, di quotidianità , di nulla, si occupava il tempo.
Non so cosa sia passato nella mente della mia compagna di viaggio, non so perché abbia scelto quel momento preciso, così come non so perché io lo abbia stampato in testa come un filmato appena visto, ma all’improvviso e con un tono della voce trasformatosi immediatamente serio:
“Michele sono incinta”
“mamma cosa hai detto?”
“aspetto un altro figlio o figlia.”
Eravamo a circa metà  anno nel momento in cui la notizia è diventata “ufficiale” ed ha autonomamente fatto il suo percorso.
Così come ha fatto il suo percorso anche la nuova vita portata nel grembo di una donna decisa a volersi rimettere in gioco, e ripercorrere strade viste in precedenza già  due volte.
Il tempo scorre.
Fa freddo, l’inverno ha da poco bussato alla porta dell’emisfero boreale, sono le 07,35 di martedì 27 dicembre 1994, squilla il vecchio telefono a disco all’interno di una casa con una famiglia in attesa di quella notizia:
“pronto chi parla?”
“buongiorno è l’ospedale FateBeneAFarliNascereQuiPerchèSiamoIPiùBravi, lei è il Signor Proto?”
“si sono io;”
“sua figlia è nata l’aspettiamo;”
“arriviamo”.
Questa è stata la venuta al mondo di Natalia, mia sorella, la più piccola, la cocca della famiglia, la viziata per definizione, forse.
Natalia è arrivata come un fulmine a ciel sereno e allo stesso modo si è imposta nelle vite di tutti noi.
Ma il destino è beffardo, si sa, ha aspettato che mi affezionassi a questo scricciolo pieno di energia, capace di mettere di buon umore tutti con versi senza senso degni del miglior grammelot d’annata, per decidere poi di allontanarmi da lei.
Il destino ha provato, forse, a testare la capacità  di continuare ad amare anche da lontano.
Il destino ha cercato di testare se fosse possibile per due persone con 17 anni di differenza, distanti 1200 km, senza la possibilità  di avere una quotidianità , se riuscissero a legare, a creare un rapporto stretto, a crescere insieme nonostante tutto, a parlarsi pur essendo di generazioni differenti.
Ci ha provato; ci hai provato destino ma senza riuscirci.
Siamo cresciuti tenendoci per mano pur percorrendo strade in direzioni opposte, vite differenti, tetti diversi a coprirci.
Siamo cresciuti vicino stando lontano, ma oggi siamo due amici che si amano come fratelli.
Litighiamo come una coppia con cento anni di matrimonio alle spalle, ma incapaci di immaginare una vita senza la presenza dell’altro.
Siamo due persone con la vittoria in tasca sul tentativo fatto dal destino di non farci mai incontrare davvero.
Oggi è il 27 dicembre giorno del suo compleanno.
Oggi Natalia è una giovane donna.
E’ diventata grande, cammina con certezza sulla strada della vita, sgomitando in mezzo agli altri per mostrare chi è diventata e quali talenti madre natura le ha messo in mano.
Natalia avrei potuto farti un regalo, ma così risparmio.
Buon compleanno e goditi questo viaggio detto vita.
Ti voglio bene.

Michele

Bolle di sapone

Interminabili giornate di pioggia.
Lunghe e infinite ore passate con il viso rivolto verso il basso a proteggersi da una miriade di piccole gocce d’acqua.
Ore in cui lo sguardo è rivolto in direzione dell’unico palcoscenico visibile: le punte delle scarpe.
Un film muto e sempre uguale, una pellicola con pochi fotogrammi ripetuti milioni di volte.
Incessanti ore passate a cercare e usare scudi, ripari, pelte sempre diverse per non farsi colpire dal freddo, dall’acqua, dalla malinconia trasportata dai colori grigi del brutto tempo.
Nonostante questo accorgimento, nonostante la chiusura in se stessi, nonostante si metta in atto qualsiasi stratagemma per non farsi colpire, c’è sempre la gocciolina priva di sensibilità , senza umanità , quella capace di trafiggerti alle spalle come una pugnalata, insinuandosi sull’unico punto debole scoperto: il collo.
Arriva come un fulmine a ciel sereno il brivido freddo in grado di percorrere la lunga autostrada della schiena.
L’inaspettato all’improvviso.
Costringe a fare i conti con i brividi su tutto il corpo, imprecare contro la malasorte, accusata giustamente di punire sempre senza far mai la cortesia di avvertire prima.
Per fortuna, a volte sfortuna, nulla dura per sempre ed oggi le nuvole hanno terminato il loro carico di rabbia, e non potendo continuare a sostenere la battaglia, prive di munizioni, hanno deciso per una ritirata strategica.
Bandiera bianca per loro.
“Ragazzi scappiamo, siamo senza armi, tutti alla base!”
Per questo motivo, come tanti piccoli funghi nati a settembre vengono allo scoperto un esiguo numero di teste, per moltiplicarsi in un secondo momento, in una marea di esseri umani increduli davanti alla ritrovata benevolenza del Dio Giove.
Uno sconfinato dipinto di volti rappresentanti la medesima espressione: incredulità .
In mezzo a queste facce scioccate, una piccola testolina piena zeppa di riccioli d’oro, incurante di tutto, fa capolinea in un minuscolo angolo di giardino.
A lei interessa solo poter riprendere a giocare fuori dalle quattro mura di casa che l’hanno tenuta prigioniera fino a quel momento.
Vuole sfruttare ogni secondo di quella pausa dal maltempo.
Stringe nella piccola mano sinistra un contenitore di plastica riempito fino all’orlo con un miscuglio di acqua e sapone ed in quella destra un’asticella, della stessa lunghezza del contenitore, con all’estremità  un cerchio zigrinato.
Saranno le sue armi per sconfiggere la noia padrona del tempo fino a quel momento.
Arma non convenzionale; ho visto tanti adulti usarla e divertirsi, così come ho visto persone usare quell’arma per trasformala in oggetto per professionisti.
Pochi ingredienti per creare oggetti effimeri: bolle di sapone.
Sfere dalle dimensioni differenti: piccole, medie, grandi.
Dai colori simili: iridescenti con sfumature cangianti, caleidoscopiche, in virtù della luce che attraversa la superficie.
In grado di volare, di cadere immediatamente al suolo o poggiarsi per qualche secondo su di un supporto rigido con il capriccio di sostenerle.
Perfino capaci di contenere altre sfere all’interno di se stesse, un sogno all’interno di un altro sogno.
Sfere che tutti cercano di toccare, non mentite anche voi non resistete al desiderio di acciuffare una bolla di sapone quando ve la ritrovate a volteggiare davanti al naso.
Nonostante tutte queste differenze le bolle di sapone hanno una proprietà  comune: divertono, piacciono a tutti grandi o piccini, ma soprattutto sono belle.
Belle nella miriade di colori capaci di sfoggiare.
Belle nelle emozioni in grado di esaltare.
Belle nella magia della spontaneità  di riuscire a far ritornare bambini.
Ma tutta questa bellezza ha un prezzo da pagare: il tempo.
Il tempo a loro concesso è limitato, laconico, stringato.
E’ una regola universale dettata da chi ha creato il mondo: “una cosa bella deve essere limitata nel tempo, mentre se è brutta le sarà  concesso tutto il tempo desiderato.
Più è lungo meglio è, così è deciso !”
Una regola di una crudeltà  infinita con lo scopo unico di non far abituare alla bellezza.
Le bolle di sapone però possono essere ricreate quasi all’infinito e la loro bellezza può essere rivista, goduta nuovamente, mentre altra forma di bellezza che bolla non è, una volta esplosa non potrà  più essere ricomposta.
Lascerà  il magico ricordo per aver avuto la fortuna di vederla, provarla, viverla, ma si dovrà  fare i conti con l’amaro in bocca e il freddo nell’anima di non poterla più avere.

L’autunno

Ventitré settembre duemiladiciannove, nove e cinquanta, lunedì mattina.
Gli astronomi dicono sia stato il momento preciso in cui l’equinozio d’autunno è arrivato ed ha scalzato l’estate.
Come un treno merci in corsa colmo all’inverosimile l’ha colpita frontalmente, l’estate ormai morente, e l’ha scaraventata lontano.
Persa in chissà  quale discarica o profondo pozzo.
Senza alcun rispetto, privo di un minimo di delicatezza, cortesia, incurante di qualsiasi norma sulle buone maniere, l’autunno ha preso il posto dell’estate in barba a tutto quello cui abbia potuto regalare, donare o concedere fino a qualche ora prima.
Un bullo di periferia dallo sguardo torvo.
Ti addormenti con gli occhi pieni di luce, il tepore sulla pelle, la pace nelle orecchie e ti risvegli con un pugno nello stomaco: strattonato all’improvviso in piena notte.
Apri gli occhi senza vedere quasi nulla.
Li stropicci pensando di essere ancora addormentato: “forse conviene lavarsi il viso”.
Spalanchi ogni finestra sperando essere solo un brutto film: quello presentato questa mattina.
Invece no, nulla.
E’ tutto vero.
Tutto è stato trasformato, ancora, un’altra volta, ciclicamente, senza stancarsi mai.
Dove prima c’erano secchiate di colori ora non c’è più nulla.
Dove prima la vista non riusciva a mettere a fuoco pezzi di natura tanto distanti, ma nitidi, ora tutto è mutato, nascosto.
Una valanga di grigi ha coperto ogni dettaglio.
Ci si ritrova a dover distinguere toni diversi di uno stesso colore.
L’azzurro del cielo, sostituito nel momento di massima luce, da un tenue grigio chiaro.
Interi boschi nascosti da bui nuvoloni grigio scuri: quasi neri.
La vista totalmente oscurata da un mantello con l’ingiusta capacità  di rendere tutto uguale.
E se tutto questo non fosse abbastanza, l’inizio della nascente stagione ha deciso di voler lasciare il segno nei ricordi, strafare, aggiungendo anche la pioggia.
Una perfezionista, nella sua totale mancanza di empatia.
Un paesaggio quasi bieco, triste, monotono, annacquato. 
Anche la gente è stata contagiata: ora chiusa nelle spalle e nei pensieri, lo sguardo basso, coperta da strati di indumenti caldi a proteggere e confortare.
Si cerca nel tepore artificiale, quella mano sulla spalla capace di rincuorare e promettere l’arrivo di una nuova estate, dove tutto è più semplice, facile e a fuoco.
Si cerca, rovistando nei ricordi appena consolidati, le emozioni frutto di tanta spensieratezza:  ora abbandonate dietro la porta, al freddo.
Ma il pugno in faccia scagliato da questo nuovo inizio, l’autunno, con lo scopo di riportare tutti nella più viva quotidianità , dopo i bagordi estivi, ha un pregio.
Il pregio di nascondere, mascherare, appena passata la forza e la voglia di volersi imporre, i nuovi colori caldi: una marea di giallo, arancione, marrone nascosti dietro l’angolo o sotto ogni pietra.
Il pregio di regalare boschi variopinti da foglie fluttuanti e colorate capaci di riscaldare gli animi con la bellezza della vista.
Un dipinto differente da notare solo voltando lo sguardo in direzioni diverse.
Il pregio di riuscire a rammentare l’esistenza della bellezza nonostante sia stata preceduta dalla cupezza del monotono grigio.
Il pregio di riuscire a trasformare se stesso da brutto anatroccolo a splendido cigno nel pieno della sua maestosità .
Perché è così: nulla è davvero brutto, nero, cattivo e incapace di cambiare – sempre. –
O forse si?

Viaggio

Il freddo è stato scalzato dal caldo torrido.
L’inverno messo ko dalla stagione più attesa dell’anno: l’estate.
Stagione capace di regalare aspettative, sogni, delusioni.
Dalla finestra dell’ufficio: le nuvole, intimidite dai prepotenti raggi del sole – rinvigorito dalla sicurezza del proprio essere iperattivo – si chiudono in sé a formare piccoli batuffoli di cotone vaganti senza alcuna meta. 
“Domani iniziano le tue vacanze?”
“Sì, finalmente, non vedo l’ora, sono così stanco, sento il bisogno di ricaricarmi e farmi qualche bel regalo.”
“Chi sono i tuoi compagni di viaggio?”
“Il compagno. Il più importante. Io.”
Mancano ventiquattro ore, l’indomani, dopo aver gettato qualche straccio in una valigia logorata dall’uso eccessivo, un aereo porterà  il signor X lontano dagli impegni scanditi da una agenda da rispettare.
Nel cuore la voglia di abbandonare – senza rimorsi –  la tristezza accumulata dalla serie di episodi negativi accaduti nell’ultimo periodo.
Ha scelto un posto qualsiasi, unica condizione: il mare.
Un uomo, descritto dal Sommo Poeta come: “nel mezzo del cammin di nostra vita” ha sentito la necessità  di regalarsi un film.
Ha deciso di voler rivedere il lungometraggio della sua vita, come fosse seduto in una cabriolet davanti lo schermo di un drive-in.
Sente la necessità  di guardarsi dentro, per una volta; troppe volte ha ignorato quella voce partire dal centro della pancia.
Come è riuscito ad accumulare così tanti errori?
Perché tutto è andato storto?
“Signore la sua carta d’imbarco, faccia buon volo.”
“Grazie, buon lavoro.”
Dal piccolo balcone della sua camera d’albergo, si intravede in lontananza, il profilo netto del cielo poggiato sul mare. 
Sembrano due liquidi incapaci di mescolarsi; due persone diverse, ma capaci di stare fianco a fianco, sempre.
Disfatta la valigia, dal telefono della camera programma la sveglia per il giorno seguente, non vuole perdersi il nascere del sole sul mare.
Lo stesso rituale ripetuto per una intera settimana: dopo essersi preparato, con il telo in una mano ed un libro nell’altra, va ad occupare una piccola duna di sabbia, un micro promontorio dona una prospettiva diversa al dipinto – mai immobile – osservato negli ultimi giorni.
Nelle orecchie la melodia continua delle onde infrante sulla sabbia.
Una distesa immensa d’acqua immobile fa da sipario al sole.
Lo tiene nascosto finché non deciderà  di mostrarsi, scaldando e illuminando con un grosso abbraccio, chiunque si trovi sotto il suo mantello.
Una miriade di piccoli riflessi dorati rimbalzano – come pietre lanciate da un bambino – sul manto azzurro.
Mister X è lì, vuole godersi quello spettacolo senza la possibilità  di interferire con la natura.
Vuole usare quell’immagine per rigenerare, per richiamare i ricordi degli episodi causa di quel male, di quella malinconia interiore portata sulle spalle per troppo tempo.
Rivede e rivive ogni istante, ogni episodio, riprovando le stesse emozioni di quelle originali, di quelle capaci di ferirlo, straziarlo, farlo cadere nuovamente a terra.
Ed è in quel momento, con quell’immobilità  del corpo, con quelle immagini variegate davanti agli occhi, con quel ripetere gli stessi gesti tutti giorni, che la natura gli sussurra la soluzione al suo dilemma.
Il suo errore è stato quello di non fare errori.
Subire passivamente le decisioni degli altri lo ha portato a sbagliare, irrimediabilmente.
Rimanere affacciato alla finestra, guardando la vita scorrere, con l’idea di poter fare sempre la cosa giusta senza fare nulla, lo ha portato all’errore più grande, dimenticare se stesso.
“Signore, mi spiace abbia interrotto la vacanza.”
“A me non spiace, ho una vita da cominciare a vivere.”
“Allora ha ragione, non la trattengo “
“La vacanza è finita. Vado a sbagliare.”

Io o tu?

Domenica pomeriggio. 
È inverno, fa freddo.
Il freddo, oltre a rallentarne i movimenti, rallenta anche i pensieri, le idee, le voglie.
Smaltita l’euforia del sabato sera, si decide di trascorrere questo tempo (che ci traghetta dall’ora del riposo all’ora degli impegni lavorativi) all’interno del guscio protettivo di casa.
Anche io ho preso questa decisione.
Annoiarsi, a volte, è l’unico modo per riposare davvero.
Il sole è quasi tramontato. 
Dalle finestre fa capolino un meraviglioso caleidoscopio di riflessi colorati.
Gli ultimi raggi della giornata, infranti sulle piccole nuvole sparse senza alcun senso nel cielo, regalano uno dei tanti dipinti offerti incondizionatamente dalla natura.
Tutto all’apparenza sembra perfetto, quando una telefonata rompe l’idillio.
“Michi, ho bisogno di parlare, vieni.”
Non una domanda, lo raggiungo.
Arrivato, lo vedo seduto nell’ultimo tavolo a sinistra di questa piccola sala circondata da grandi vetrate.
I divanetti in pelle, verde scuro, vuoti, lo isolano dai pochi avventori presenti.
Le luci calde sulle pareti, colorano l’ambiente con un insolito maquillage vintage. 
In mano un bicchiere, vino, rosso.
Il viso triste, cupo, assorto.
Gli occhi bassi, a fissare il liquido innanzi a lui, tradiscono i suoi pensieri nascosti.
Mi siedo di fronte, lo fisso.
Un fiume in piena mi travolge.
Una valanga disordinata di parole, scaccia violentemente i miei pensieri frivoli del momento.
Il racconto, procedendo a briglia sciolta, mi permette di comprendere l’accaduto, ma soprattutto mi permette di comprendere cosa lo tormenta.
Una frase su tutte lo riassume.
Per cercare di non mentire, ha deluso nuovamente una persona importante.
Ecco, tutto ruota intorno a questo.
Un duopolio in cui tutti ci siamo trovati almeno una volta.
Mentire o deludere?
Scegliere il bene interiore proprio o quello dell’altro?
Perché alla fine la scelta ricade sempre sulla stessa domanda.
Decidere chi è più importante in quel momento:
io o tu?