Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve

Quando si ha voglia di staccare dalle letture impegnate, dai saggi o da tutto ciò che può impegnare la mente, questo di Jonasson è il libro giusto per farlo.

La trama parla di un vecchio, nel giorno del suo centesimo compleanno, che decide di scappare dalla casa di cura in cui abita per andare altrove. Da questo episodio iniziale, si sviluppa parallelamente sia il racconto principale nonché la storia della sua vita (quella di Allan Karlsson). Jonasson riesce, episodio dopo episodio, a sviscerare ogni dettaglio del carattere del protagonista e a tratti quello degli altri componenti della storia. In un susseguirsi di incontri, vicende surreali, casualità strane Karlsson si ritrova ad essere protagonista della storia contemporanea del mondo.

Ben scritto, scorrevole e facile da seguire, il centenario che saltò dalla finestra e scomparve è un bel libro da portare appresso per sorridere insieme ad Allan.

Operazione Aemilia

Il libro che aiuta a comprendere come si muovono le mani della ‘ndragheta.

Sabrina Pignedoli, collaboratrice Ansa e redattrice del Resto del Carlino, si specializza presso la scuola di giornalismo di Bologna dove nel 2009 diventa giornalista professionista scrivendo di cronaca nera e giudiziaria. Non fa in tempo ad occupare la scrivania che nel 2010 si scontra con le carte dell’operazione Pandora, un’indagine della DDA di Catanzaro che cominciava a mettere in luce la delocalizzazione degli affari della ‘Ndrangheta nel Nord Italia, ma soprattutto in Emilia Romagna. 

Lo spirito giornalistico innato e la voglia di capire questo fenomeno, finora a lei sconosciuto, la portano a interessarsi e scrivere a tempo pieno di ‘ndrangheta.

Da qui e con l’operazione Aemilia dell’antimafia di Bologna nasce la prima fatica letteraria della Pignedoli, alla quale dà lo stesso titolo (Operazione Aemilia – come una cosca di ‘ndrangheta si è insediata al nord),  Imprimatur editore, (casa editrice generalista di Reggio Emilia).

Erroneamente ci si aspetterebbe la solita raccolta e pubblicazione di atti di una delle tante inchieste italiane. Invece, l’autrice riesce a scrivere “un romanzo” usando un tono a tratti sarcastico, senza però abbandonare il rigore analitico di cui questi racconti necessitano. 

Dalle prime righe prende forma un intreccio (sapientemente sbrogliato) di considerazioni personali, atti d’inchiesta, riferimenti a eventi passati, personalità e luoghi strettamente collegati che portano il lettore ad immergersi in un mondo che ha sempre visto, immaginato e relegato lontano dalla: “anonima città a misura d’uomo …omissis… la mafia a Reggio Emilia non c’è: nessuno la vede, nessuno la riconosce.” (p. 12), ma che in realtà è vicina a lui, vive con lui, vive di lui. 

La cosca Grande Aracri (di cui tratta l’inchiesta e il libro) “sanguinario gruppo criminale della ‘ndrangheta di Cutro (Crotone)” (p. 11”) in 32 anni di attività è riuscita a infiltrare i propri affari in ogni angolo pubblico e privato e lascia stupefatti lo scoprire che a Reggio Emilia sono gli imprenditori che cercano la ‘ndrangheta e non viceversa sedendo al loro tavolo e facendo tranquillamente affari con loro. 

Proprio questo ha dato alla cosca la forza di radicarsi sul territorio e agire così indisturbati per moltissimi anni.

La lettura continua con un moto di rabbia quando si scopre che il sodalizio criminale vede nella catastrofe del terremoto emiliano del 2012 un’opportunità di guadagno; la Pignedoli scrive “Ridono perché pensano già alla ricostruzione. Loro non hanno morti da piangere” (p.29).

Ovviamente in questa rete non manca nessuno, si va dal semplice operaio che sfrutta la cosca per lavorare, fino alla massoneria, passando dalla politica alla religione, nessuno escluso. Vengono definiti “prostituti professionali”. Dei colletti bianchi la maggiore esponente diverrà Roberta Tattini che imparerà a conoscere la cosca, i meccanismi e a trarne ampio beneficio, pur sapendo con chi ha a che fare. Si noti che il boss è definito “sanguinario”, ma “gli scrupoli etici sono andati fuori moda e lei la moda l’ha sempre seguita” (p.102).

Un nuovo aspetto che l’autrice fa emergere è che “In Emilia la ‘ndrangheta punta sul consenso sociale” (p. 23) e questa è una svolta per l’organizzazione criminale in quanto, sfruttando canali finora mai percorsi, cerca il consenso mediatico dando all’opinione pubblica un’immagine di sé purificata. Usando le parole dell’autrice “un imponente e organizzato tentativo di condizionamento dell’opinione pubblica attraverso i media, ricorrendo a trasmissioni pilotate, interviste, addirittura conferenze stampa (p. 118)”. Questa campagna mediatica viene gestita da Nicolino Sarcone (uomo “incapace di mettere insieme due parole” p.123”) referente di Grande Aracri, circondato da molti collaboratori tra cui Marco Gibertini (giornalista professionista) successivamente arrestato e sospeso dall’albo (la Pignedoli lo definisce il “pr” della cosca), procacciatore d’affari e addetto al repulisti dell’immagine del sodalizio criminale. 

Andando avanti con la lettura è evidente come, la pervasività della cosca sul territorio emiliano è così ampia da trovare terreno fertile non solo nei giornalisti, ma anche in professionisti, carabinieri, politici di tutti gli schieramenti e poliziotti. 

D’altronde la forza della cosca oltre alla paura è nel denaro e si sa: “pecunia non olet”. 

L’autrice, proprio da un uomo della Polizia (Domenico Mesiano successivamente arrestato) riceverà una minaccia di interrompere le sue “indagini” sul clan Muto; questo dopo aver scritto un articolo (pubblicato sul Resto del Carlino) in cui si metteva in luce una cena organizzata dagli adepti del clan Grande Aracri alla quale avevano preso parte anche esponenti politici e persone vicino alla cosca. Incontro che diventerà in seguito “la famosa cena”. 

Fortunatamente le minacce sono state rispedite al mittente e denunciate. 

Personalmente credo che le minacce subite abbiano sortito l’effetto opposto, motivando la giornalista a proseguire con il suo lavoro e facendole capire che il percorso segnato era quello corretto. Questo è stato messo in risalto anche nell’ordinanza di Aemilia da parte del GIP dottor Ziroldi, le cui parole non possono non essere riportate: “I fatti danno fastidio più delle idee. Chi obbedisce ai fatti rimane un uomo libero, e Sabrina Pignedoli ha dimostrato di essere libera” (p.128). E dello stesso tenore sono ancora le parole del Procuratore di Bologna Roberto Alfonso con il suo plauso alla forza di andare avanti e di “respingere il tentativo di compressione della libertà di stampa”. 

Fanno anche sorridere le battute che la scrittrice fa nel descrive gli avvenimenti del Comune di Brescello, piccolo paesino in cui Guareschi aveva ambientato le storie di Don Camillo e Peppone. Così il nuovo Don Camillo (Don Evandro Gherardi) non sarà più il rivale del Sindaco comunista Peppone ma diventa suo condiscendente sostenitore. 

Purtroppo gli arresti dell’operazione Aemilia gli daranno torto. (p.67)

E’ triste, infine, vedere e confermare come in tutta questa storia chi vince è sempre l’omertà delle persone (in ogni campo, nessuno escluso) che, non avendo il coraggio di ribellarsi a questo sistema, lasciano che la propria vita sia condizionata da questi Signori.

Consiglio la lettura di questo libro a chiunque voglia comprendere il modus operandi della ‘ndrangheta che si muove per fare affari con chiunque: che si tratti di privato o di esponente pubblico. Ottimo esempio di giornalismo d’inchiesta. 

Farfalla

Questa poesia ha partecipato al concorso nazionale di poesia “Dantebus.”

Battito d’ali leggero
sinuoso il tuo volo,
di mantello colorato vestita
sulla brezza ti poggi.
In vita precedente nato bruco
ora corpo mutato
di metamorfosi memoria smarrita.
In direzione dell’orizzonte vai
ignoto è il tuo percorso
luce la tua meta.
Turbamento tra simili
animo inquieto,
ali cingono il corpo
anima infonde coraggio,
splendi.

Una primavera con la corona

Il sole inizia ad affacciarsi sui tetti delle case: bussa ai vetri delle finestre rivolte nella sua direzione. Una miriade di arancioni vengono stagliati in ogni angolo visibile, predominano sugli altri, mentre lottano con i celesti che a breve vinceranno la guerra. Qualche nuvola sparsa qua e là ha il compito di filtrarne le sfumature dando volume ai colori, regalandogli forma e consistenza riconoscibile, rendendoli vivi come se si potessero toccare con mano. Inizia a sbocciare il tepore rassicurante della primavera, mentre l’inverno sembra sia andato definitivamente in soffitta, decidendo autonomamente di rinchiudersi nel baule: sarà la sua casa per il prossimo semestre. È il periodo dell’anno in cui tutto riprende vita. Così come gli atleti si preparano davanti ai blocchi di partenza in attesa dello sparo d’inizio, così la natura esplode soffiando nei polmoni delle sue creature. Dagli alberi ai fiori, dagli insetti agli animali, tutti svegli dopo il lungo riposo dovuto al freddo invernale che acquieta e cristallizza ogni essere. Anche gli uomini attendono con ansia, quasi trepidanti il momento di ripartire, sognano la primavera. È il momento dei nuovi propositi, “dei farò”, dei “mai più”. Una storia ripetuta ogni anno, sempre uguale, poco importa se le promesse fatte non mutano, importa solo rinnovarle o farne di nuove, perché la primavera è speranza, è progetto, è futuro. Noi umani abbiamo la necessità di avere degli obiettivi, ci rassicurano, ed usiamo questi momenti arbitrari ma rappresentativi per tutti, per archiviare ciò che può essere andato storto; un modo per allinearsi al ciclo periodico e rasserenante della natura.

Poco prima di questo avvio, ce ne stavamo stretti nelle coperte di lana sui divani all’interno delle nostre case. L’inverno, da vero burlone, gettava pezzi di primavera tra le giornate gelide di un noiosissimo febbraio; profumi conosciuti solleticavano il naso mentre la gioia di vivere degli insetti rompeva il silenzio dei nuvoloni grigi. Da lontano, come un’ouverture eseguita a sipario chiuso, abbiamo avvertito senza riconoscerle, le prime note di un’opera mai ascoltata. Sono state note talmente flebili e sottotono da essere ignorate, troppo distanti per essere viste, troppo stonate per essere ascoltate con l’attenzione che avrebbero meritato. Il maestro J. M. Ravel, nel suo Bolero, fa iniziare due fiati e come una valanga aggiunge ad ogni ripetizione altri strumenti al tema, e allo stesso modo lo tsunami della novità ha travolto le nostre vite iniziando da piccoli buffetti, ma ha aggiunto pugni sempre più forti, tutti nello stomaco, al centro. Essendo una novità è stata mascherata con un nome regale, degna di un sovrano e di quello che lo identifica come tale: la corona; a questa novità è stato dato il nome di “coronavirus”. Chissà perché gli scienziati si divertono a dare nomi rassicuranti a qualcosa che può solo spargere paura, infondere incertezze o togliere la vita. Bah. Ciò che ci caratterizza è stato spazzato via. Prima della novità, c’era il piacere di concedere ad un estraneo totale fiducia, gratuitamente, perché c’è sempre tempo per perderla, mentre ora siamo stati costretti a diffidare di tutti. Cerchiamo nell’altro i segni del pericolo o di quello che può farci male. Analizziamo come detective chi è davanti a noi alla ricerca di indizi compromettenti. Chi abbiamo di fronte, rigorosamente ad almeno un metro, si è trasformato da persona da conoscere in persona pronta a colpirci, farci soffrire, perché trovare qualcuno su cui puntare il dito è rassicurante, ci toglie il peso dall’aver sbagliato. Ci è stato chiesto di allontanarci con i corpi per non ammalarli, ma lo abbiamo scambiato con allontaniamo, anche e soprattutto, i sentimenti. Perché è inevitabile, cercando di vivere dentro una campana di vetro, non possiamo intrecciare nuove emozioni o relazioni, né risolvere eventuali conflitti: saranno sommate alle preoccupazioni delle incertezze. Abbiamo dovuto indossare le mascherine per non aprire la porta al virus, quello con la corona, ma abbiamo chiuso la porta ai sorrisi. Un sorriso era un semplice gesto, ma aveva la forza di dire “Sono una persona buona e lo sei anche tu, ed incontrarti mi ha regalato un po’ di calore”. Ora, invece, sembriamo dei manichini, inespressivi a causa dello scudo sul viso e così pieni di timore da abbassare gli occhi nell’incrociarne altri, come se fossimo gli autori di chissà quale delitto. Siamo diventati tutti potenziali omicidi. Abbiamo perso la possibilità di riconoscere una risata o un pianto, un momento di rabbia da uno di paura; questo virus che di regale non ha nulla, ci ha rubato l’empatia. La provvista personale era già limitata, ma ora è stata azzerata del tutto. Questo maledetto essere invisibile ci ha tolto la possibilità di donare un abbraccio, per gli scienziati occupati a tenere in vita i corpi è quasi peggio del virus stesso. Ma un abbraccio è vita, è calore, è supporto, è amore, ed i corpi rimangono vivi perché possono nutrirsi anche di questo cibo che non deve essere ingerito, ma nutre a volte, più di un pasto abbondante. Ci è stato impedito di dare un bacio. Il gesto universale capace di rappresentare l’amore. Come lo spieghiamo adesso ai bambini, quando si faranno male, che non potremo curarli con la medicina più potente di tutti? E dopo tutto questo, e nonostante questo, un corpo può anche perdere la battaglia contro il virus e qui si compirà l’ultima tragedia: l’impossibilità di salutare per l’ultima volta quella persona. Cosa può esserci di più crudele? Come si può non farsi aggredire dal vuoto estremo del dolore dell’anima? Stiamo cercando a tutti i costi di tenere in vita i corpi, ma questo bastardo riesce a colpire anche chi non infetta, ammalando le anime dei rimasti sani costringendole a rango inferiore. Le stiamo trattando come abbiamo fatto con i bambini: con l’illusione di difenderli li abbiamo chiusi in casa, senza chiedergli se stessero soffrendo. Chissà se tutto questo è vivere.

Federica Bosco

E… cosa si prova quando incontri quello giusto?
È come quando torni a casa la sera, stanca morta, e chiudendo la porta hai quella sensazione di pace e di protezione che ti avvolge e non vedi l’ora di sdraiarti sul divano con una bella cioccolata calda e un libro. ecco, trovare la persona giusta dovrebbe farti quell’effetto lì, l’effetto di tornare a casa.

Non tutti gli uomini vengono per nuocere

Tavolo per due

Dall’interno della stanza, appena illuminata dai pochi raggi di sole rimasti, ammira, seduta sulla vecchia poltrona, le ombre dei rami spogli, riflessi sulla terra riscaldata dall’ultima giornata autunnale.
La mente, libera, danza sulle punte accompagnata dalle note librate in aria – suonate dal pianoforte dei ricordi. –
Il corpo, prigioniero di se stesso, guarda l’anima fuggita oltre il vetro.
Siede sul davanzale, con le braccia attorno alle gambe.
Attende.
Un altro giorno è passato.
Un altro tramonto sta per lasciare il posto ad una nuova oscurità .
Un altro pezzo di speranza ha abbandonato il tavolo, apparecchiato per due, rimasto anche oggi vuoto.

Questo racconto è stato analizzato dalla scrittrice Maggie van der Toorn che lo ha valutato così:

Emanuela

La fiamma del camino, ardente, riscaldava con un accogliente tepore la stanza.
I colori caldi, provenienti dalla vicina fonte di calore naturale, illuminavano l’ambiente tinteggiandolo con toni sempre differenti.
Lo scoppiettio delle braci spezzava, con delicatezza, il silenzio calato in quell’istante.
Un dipinto in continua evoluzione.
Noi sprofondati tra le braccia morbide del divano con in mano un bicchiere di buon vino.
Nel mezzo di questa cornice, la solita storia raccontata più e più volte, ma sempre piacevole da ascoltare.
I genitori amano novellare alcuni aneddoti più di altri, forse perché rappresentano qualcosa di importante o forse perché quella storia, oltre a riviverla con la mente, la rivivono con il cuore.
“Sapete che Emanuela non doveva chiamarsi Emanuela?”
“No papà  questa storia non l’abbiamo mai sentita! – Oggi. -“
“Prima che vostra sorella nascesse, con la mamma avevamo deciso di darle un altro nome. Il giorno che venne alla luce dovevo andare a registrare la nascita dal funzionario comunale, e passai per salutare.”
“Dai papà , continua ti prego, si fa avvincente la cosa!”
“Sei un cretino. Dicevo; nel salutare ho avvisato la mamma che sarei andato dal funzionario a registrare Emanuela, chiedendole, confermiamo Alessandra come nome?”
La risposta fu “ah non ti preoccupare, ho già  fatto io, l’ho chiamata Emanuela.”
Ecco; Emanuela ha iniziato la sua vita così: con il brivido di essere un’altra persona.
Non so se il nome influenza davvero l’essere umano, ma a me piace così com’è, quindi sono contento sia arrivata da noi con il nome di Emanuela.
Questi sono i ricordi aggrappati al cuore dei miei genitori, mentre se io avvolgo indietro la pellicola in cui sono impressi i miei, il primo fotogramma è quello di un batuffolo bianco pieno zeppo di puntini rossi.
E’ un’immagine nitida, forse amplificata dall’avere riposta in qualche cassetto impolverato, una fotografia di quel momento, di quei giorni.
Una bimba paffutella, stesa nel suo lettino, alle prese con il morbillo.
Il viso ed il corpicino coperto da un naturale vestitino a pois.
Gli occhioni, tinti di un verde impenetrabile sempre spalancati, sono il suo biglietto da visita insieme al sorriso in primo piano.
Mostrano la gioia di essere al mondo e regalano, incondizionatamente, fiducia a chi ha la fortuna di percorrere con lei qualche passo di questa vita.
Io ho percorso un tratto di strada breve prima di essere investito dalla nascita di Emanuela.
Dopo essermi goduto la comodità , i privilegi, dell’essere figlio unico, all’improvviso mi sono visto recapitare a domicilio un altro essere umano.
“Chissà  perché mamma e papà  hanno portato a casa un’altra bambina, boh!”
Così dopo aver fatto scorta di coccole e attenzioni per qualche anno, mi sono ritrovato a dover condividere tutto con Emanuela.
In quegli anni vivevamo in una casa talmente piccina da non avere una nostra cameretta.
Condividevamo ogni angolo, ogni sguardo, ogni respiro.
In pochissimo tempo siamo diventati una coppia di fatto.
Siamo cresciuti insieme guardandoci le spalle.
Ci siamo affezionati, l’un l’altro, immediatamente.
Le litigate, immancabili ogni giorno, erano il filo conduttore del nostro amore.
Emanuela cresceva, la sua proverbiale attenzione ai particolari si acuiva e sparigliarle le carte in tavola non la faceva mai arrabbiare.
Lei è così: nascosta dietro alla figura quasi austera, impenetrabile, sempre perfetta, si nasconde un cuore d’oro incapace di mostrare rancore.
Emanuela non parla, dimostra.
Dimostra quotidianamente il suo valore, così come dimostra i sentimenti senza sbandierarli.
Non lancia parole al vento.
Mostra cosa ha dentro e cosa puoi perdere se rinunci a lei, senza illusioni.
Emanuela è la persona che pur di farti felice, se può, ti toglie un pezzo di infelicità  per farsene carico.
Emanuela dona.
Dona ciò che possiede nelle mani o ciò che fa parte di se stessa.
Oggi è il compleanno di Emanuela, e ne approfitta per aggiungere un pezzo di esperienza alla pila riposta sempre al suo fianco, perché lei fa così: conserva tutto dentro il cuore adagiandolo su un trono morbido per farlo sentire protetto, al sicuro, a costo di dover usare il suo corpo per difenderlo.
Ma oggi è il giorno di riscuotere.
Oggi le persone importanti – per te – hanno la possibilità  di allargare le braccia, e per una volta, lasciarti appoggiare la testa sulle loro spalle sussurrandoti “oggi spetta a noi pensare a te.”
Io non potrò esserci, e spero che la vita decida finalmente di donarti qualcosa capace di farti urlare: “GRAZIE.”
Buon compleanno Ema, ti voglio un gran bene.

Maschere

Stando al centro della piazza e voltando il viso in ogni direzione, si riesce a spedire lo sguardo talmente lontano, da non esserci abituati.
È una strana sensazione, disorienta.
Un posto solitamente affollato, in cui ci si scontra ad ogni passo con gli occhi di uno sconosciuto, ora è totalmente privo di parole.
Il silenzio è così rumoroso da non riuscire a restare immobile più di qualche minuto.
Nulla che possa dare respiro ad un angolo abituato ad essere vita.
Stiamo vivendo un periodo strano, quasi alieno.
A causa di un’epidemia tra gli uomini, capace di colpire sia il corpo, falciandolo, sia il buon umore e la voglia di vivere, tutto si è svuotato.
Il vuoto creato è talmente cupo da sentire l’eco di se stesso.
La mente, guerriera contro questo esercito invisibile, rimescola i ricordi degli anni passati.
Ricordi nitidi nei giorni in cui questa stessa piazza era piena zeppa di risate.
Questo perché, era il periodo in cui i bambini ricoprivano ogni centimetro di suolo con i coriandoli, le stelle filanti e grosse risate lanciate senza remore in ogni angolo.
Si divertivano prendendosi gioco di loro e tra loro.
Suoni amplificati e colori sgargianti erano il tavolo su cui bandire il pranzo di quei giorni.
Era il periodo in cui indossare una maschera, senza destare sospetti, era consentito.
Perfino il cielo si mascherava vestendosi con i suoi abiti più belli, azzurri di un azzurro accecante, ma burlandosi di tutti ripuliva la terra con una brezza gelida.
Oppure si nascondeva dietro infiniti batuffoli di cotone bianco, tali da riempire lo spazio immenso sopra le nostre teste.
La luce proveniente dal sole, colorata da un caleidoscopio di minuscoli riflessi, riscaldava i cuccioli di uomo troppo impegnati a giocare, per farsi avvolgere dal freddo.
I bambini attendono un intero anno per essere qualcun’altro.
Sono incapaci, loro, di nascondere il proprio essere.
L’essere bambino è un pregio che si perde durante la cavalcata della vita.
L’essere bambino regala la necessità  di mostrarsi sempre per come si è davvero, nel bene e nel male.
Mostrare ogni singola emozione: rabbia, frustrazione, felicità , amore o qualunque essa sia, senza paura di essere giudicati, rappresenta l’essere dell’essere fanciulli.
Poi si cresce.
Si diventa adulti e si impara l’arte di indossare una maschera ogni giorno – sempre diversa. –
Ogni mattina si sceglie una maschera, così come si sceglie un vestito.
Davanti allo specchio cerchiamo i cambiamenti avvenuti nella notte.
I nuovi solchi nati sul viso, come un aratro fa con la terra, modellano le pieghe vecchie e nuove.
Da lì trapelano i sentimenti che ci invaderanno in quella giornata; così li copriamo.
Ci omologhiamo a quello a cui vogliamo anelare, piuttosto che mostrare una piccola parte della nostra anima.
Decidiamo razionalmente chi dobbiamo essere quel giorno.
Una finzione continua con noi e gli altri.
È l’indossare continuamente queste maschere il motivo per cui nasce l’esigenza o la necessità  degli adulti, di voler di tanto in tanto rimanere soli.
Amici miei avete mai visto un bambino desiderare di voler restare solo?
No, assolutamente.
Al contrario, i bambini temono l’essere abbandonati, più di ogni altra cosa al mondo.
Temono di essere privati del mantello sicuro di un paio d’occhi adulti.
Mentre noi adulti abbiamo, sentiamo, la necessità  di purificarci, scrollandoci dalle stanche spalle tutte le menzogne raccontate nei giorni precedenti.
Così ci chiudiamo.
In silenzio, soli, ad essere ciò che siamo realmente.
A gettare via dalle spalle lo zaino colmo di maschere pronte per ogni evenienza.
Colmo di finzione.
Abbracciamo questa forma di purificazione – l’isolamento – per avere la possibilità  di riprendere, più forti di prima, la giornata successiva con una nuova maschera.
Questa convinzione è talmente radicata in noi, da non essere più in grado di riconoscere qualcuno deciso a mostrare solo se stesso.
Lo attacchiamo – spaventa. –
Spaventa trovarsi a pochi centimetri con qualcosa di sconosciuto.
Un essere umano vestito esclusivamente del suo io.
Una novità  che non ci appartiene.
Davanti a tutto questo, l’unica via di fuga è quella di combatterlo, scacciandolo come un appestato.
Senza immaginare di aver allontanato proprio ciò che cerchiamo da sempre: qualcuno che è solo se stesso.

Il funambolo

Tesa e stretta 
via percorsa,
nel corpo
equilibrio cerchi,
nel respiro
rinvieni pace,
immobile
il pensiero.

Sguardo
diretto al futuro
spalle
su ricordi posano,
con passo sicuro
in terra mobile
ti muovi.

Partenza certa
incerto arrivo
oscilli al centro
non fermarti.

Puoi cadere.

Un giorno come un altro

Trovarsi in luoghi in cui si è costretti a stare forzatamente vicini non ha sempre accezioni negative.
Gruppi inamovibili di sedili uno a fianco all’altro creano un microcosmo capace di rappresentare degnamente una comunità  eterogenea.
Prestando un po’ di attenzione si può giocare a riconoscere chi si ha davanti, chi è, cosa fa o cosa sta pensando.
E’ un gioco divertente anche se è un’intrusione non richiesta da nessuno.
Il personaggio più facile da identificare è il signore alla mia estremità  sinistra.
Il professionista sempre in giro mentre torna dalla famiglia.
Veste con sicurezza la sua divisa d’ordinanza, giacca sportiva portata sul jeans blu scuro, sposato, si nota la fede portata sull’anulare sinistro, padre di due figlie, rivelatore lo sfondo del telefono mentre legge l’Economist.
I suoi pensieri urlano ad alta voce:
“in questi giorni di festa dovremmo fatturare di più”,
ho intravisto un report delle scorte di magazzino proiettato sul portatile lasciato in bella vista sul tavolino davanti a lui, beni conservati in picchiata quindi fatture in più da monetizzare.
Forse è questo il motivo del sorriso spuntato sul viso, come un fungo nato dopo le piogge di settembre, mentre studia il grafico.
Nella fila destra che anticipa la mia, il posto è stato assegnato ad una ragazza.
E’ un posto strategico per chi come me non riesce a fare a meno di guardare nella vita degli sconosciuti capitati per caso sotto il mio naso; posso osservare tutto senza farmi notare, senza pubblicizzare l’intrusione.
Il manuale di psicologia spicciola scritto da “noartri” ed edito dalla casa editrice “luoghi comuni s.r.l.” la definirebbe narcisista.
I pantaloni maculati di colore nero su sfondo nero portati senza alcun sostegno disegnano il corpo privo di imperfezioni, ma necessitano ad ogni movimento di essere sostenuti o rimessi al loro posto.
Un’operazione da fare esclusivamente in piedi in cui le ore passate in palestra sono ben rappresentate, ma preferisco fermarmi qui con la descrizione del movimento, rimango pur sempre un gentiluomo.
Sulla testa una coroncina dal lungo pelo verde, senza alcuna utilità  pratica, ma indubbio quello di richiamare l’attenzione.
Le unghie curate, disegnate, ornate, ma troppo lunghe per usare agevolmente il telefono.
L’aggeggio elettronico mai abbandonato è protetto da una cover, sulla quale è stampata una foto del suo viso abbronzato con sfondo il mare azzurro cornice delle vacanze estive appena superate.
Sullo schermo scorrono gallerie zeppe di autoscatti (lo so adesso va di moda dire selfie ma volete mettere il piacere di usare una parola in italiano), social in cui l’unico soggetto è se stessa, chat usate esclusivamente per trasmettere brevi video di lei in primo piano.
Avete ragione forse sono troppo duro con questa giovane ragazza, in fin dei conti ha il viso pulito e alla sua età  deve ancora completare di riempire la scatola personale di sicurezza di se, svuotandola preventivamente dalle fragilità .
Come non detto.
Ha appena finito di truccarsi, si è scattata l’ennesima foto e l’ha inviata a due ragazzi differenti ma con lo stesso testo:
“amore non vedo l’ora di vederti, sto arrivando”.
Chissà  se passerà  il natale con la propria famiglia, sicuramente parte del tempo sarà  occupata a scartare regali.
Dietro la narcisista è seduta una donna giovane, non ho idea di quale lavoro possa fare, non ha segni distintivi, ma sta passando un periodo duro.
Si trova nella fase in cui la vita ti mette alla prova, ti regala, ed essendo natale non poteva scegliere periodo migliore, la sofferenza dell’anima legata all’amore.
Legge: “Se fa male non è amore autrice Montse Barderi”.
No, non è una lettura usata per occupare il tempo.
Il segnalibro, un biglietto prestampato con su scritto “buon natale mamma”, si trova oltre la metà , le pagine le rilegge più volte, sembra volerle studiare, memorizzare.
Indossa un pantalone troppo comodo per essere elegante e la felpa larga nasconde la visibilità  di qualsiasi forma corporea possa celarsi sotto di lei.
Il colore è unico: nero.
I capelli lunghi sono raccolti alla rinfusa, il viso struccato tradisce notti passate insonni ad ascoltare i brani più tristi mai scritti con l’intento di non schivare il dolore, ma di passarci dentro per anestetizzarlo.
Gli occhi e i lati delle labbra disegnano curve verso il basso mentre deglutisce qualche liquido immaginario.
Avrei voglia di abbracciarla per regalarle qualche istante di calore umano, ma questo oggi non succederà .
Tre persone, così diverse, hanno un denominatore comune fra di loro e con il resto del gruppo di cui anche io faccio parte: passare il natale lontani dalla quotidianità  di tutti i giorni.
Natale.
Cosa sarà  mai il natale se non un giorno come un altro, ma con qualche variante.
Un giorno in cui non si lavora e si mangia seduti attorno a tavoli allungati per l’occasione.
Un giorno dalle strade sgombre, senza traffico e senza fretta.
Natale è un pretesto, una motivazione.
Lo stratagemma per andare a trovare genitori, parenti o amici che normalmente non si ha mai il tempo di vedere.
La scusa per farsi regali, per essere costretti a trasformare le parole in fatti.
Natale è l’attenuante generica usata per azzerare tutti quei “ti voglio bene” accumulati nella mente e non spediti al giusto indirizzo.
Abbiamo bisogno di una motivazione, di una convenzione per riabbracciare le persone importanti.
Natale è un coordinatore eccellente; riesce a muovere masse di persone, merci e sentimenti senza dissipare energie.
Natale è anche il giorno di massima ipocrisia, di sorrisi buttati qua e la solo perché si è “tutti più buoni”.
Natale è un amplificatore.
Amplifica vuoti e crepacci, trasforma il nero in nero profondo, costringe, fermando tutti e estraendoli dalla routine di tutti i giorni, a guardarsi nello specchio che riflette le vesti logore indossate dalla propria pace interiore.
Natale è un bullo, a volte fa finta di non vederti, altre ti colpisce in pieno viso senza usarti la cortesia di ripagarti per sdebitarsi.
Buon natale.