Tavolo per due

Dall’interno della stanza, appena illuminata dai pochi raggi di sole rimasti, ammira, seduta sulla vecchia poltrona, le ombre dei rami spogli, riflessi sulla terra riscaldata dall’ultima giornata autunnale.
La mente, libera, danza sulle punte accompagnata dalle note librate in aria – suonate dal pianoforte dei ricordi. –
Il corpo, prigioniero di se stesso, guarda l’anima fuggita oltre il vetro.
Siede sul davanzale, con le braccia attorno alle gambe.
Attende.
Un altro giorno è passato.
Un altro tramonto sta per lasciare il posto ad una nuova oscurità .
Un altro pezzo di speranza ha abbandonato il tavolo, apparecchiato per due, rimasto anche oggi vuoto.

Questo racconto è stato analizzato dalla scrittrice Maggie van der Toorn che lo ha valutato così:

Correva

Questo racconto è stato scelto e pubblicato nell’antologia “Penne d’oro della letteratura Italiana 2021.”

L’antologia è acquistabile qui.

Correva.
Un leggero abito blu la vestiva senza stringere, ne accarezzava i confini del corpo.
Ricadendo creava morbide onde leggere.
Il blu mescolato con una manciata di toni chiari ne smorzava la rigidità , lo trasformava da notte in alba.
Una cascata di fiori bianchi l’adornavano facendone avvertire la freschezza.
Le mani tenevano alti gli orli per non intralciare i movimenti del corpo e aprendo, così, qualche spiraglio verso le gambe affusolate.
Correva su un lago bianco di polvere compatta fatto di ghiaia.
I grandi alberi, dall’alta chioma maestosa nati su uno dei lati – quello che guarda al sole la mattina – non riuscivano a gettare l’ombra tanto in là  da investirla.
Era immersa nella luce.
I lucenti capelli neri scontrandosi con i raggi del sole creavano illusioni di viola.
Le coprivano appena le spalle, mentre un piccolo fermaglio ne raccoglieva una manciata come un abbraccio, creando una piccola coda, una sorella minore, che ricadeva al centro.
Voltava il viso cercando di guardare oltre le spalle.
I grandi occhi azzurri, color del mare su una spiaggia bianca, si scontravano con la terra dei miei, mentre il viso sprigionava vita.
Le labbra porpora disegnavano il sorriso di una luna nuova, ne stagliava l’estremità  verso l’alto.
Le labbra porpora leggermente aperte lasciavano libera di muoversi la felicità  del momento.
Correva.
Correva in direzione del sole, verso l’orizzonte, libera.
Mentre si allontanava si è voltata, cercando di guardare indietro, ma voleva correre.
Ardeva dentro di lei, spinta da una forza sconosciuta, la necessità  di correre.
Correva, mentre io ero fermo, e il distacco si dilatava, e i due corpi si separavano, e lei sorrideva, ma correva.
Ho allungato il braccio, con la mano aperta cercando di stringerla, ma cingevo l’aria.
Riuscivo ad afferrare solo la figura minuta che si allontanava, ma era priva di consistenza.
L’ho vista svanire inghiottita dalla luce del sole, ha raggiunto la sua meta.
Correva.

Maschere

Stando al centro della piazza e voltando il viso in ogni direzione, si riesce a spedire lo sguardo talmente lontano, da non esserci abituati.
È una strana sensazione, disorienta.
Un posto solitamente affollato, in cui ci si scontra ad ogni passo con gli occhi di uno sconosciuto, ora è totalmente privo di parole.
Il silenzio è così rumoroso da non riuscire a restare immobile più di qualche minuto.
Nulla che possa dare respiro ad un angolo abituato ad essere vita.
Stiamo vivendo un periodo strano, quasi alieno.
A causa di un’epidemia tra gli uomini, capace di colpire sia il corpo, falciandolo, sia il buon umore e la voglia di vivere, tutto si è svuotato.
Il vuoto creato è talmente cupo da sentire l’eco di se stesso.
La mente, guerriera contro questo esercito invisibile, rimescola i ricordi degli anni passati.
Ricordi nitidi nei giorni in cui questa stessa piazza era piena zeppa di risate.
Questo perché, era il periodo in cui i bambini ricoprivano ogni centimetro di suolo con i coriandoli, le stelle filanti e grosse risate lanciate senza remore in ogni angolo.
Si divertivano prendendosi gioco di loro e tra loro.
Suoni amplificati e colori sgargianti erano il tavolo su cui bandire il pranzo di quei giorni.
Era il periodo in cui indossare una maschera, senza destare sospetti, era consentito.
Perfino il cielo si mascherava vestendosi con i suoi abiti più belli, azzurri di un azzurro accecante, ma burlandosi di tutti ripuliva la terra con una brezza gelida.
Oppure si nascondeva dietro infiniti batuffoli di cotone bianco, tali da riempire lo spazio immenso sopra le nostre teste.
La luce proveniente dal sole, colorata da un caleidoscopio di minuscoli riflessi, riscaldava i cuccioli di uomo troppo impegnati a giocare, per farsi avvolgere dal freddo.
I bambini attendono un intero anno per essere qualcun’altro.
Sono incapaci, loro, di nascondere il proprio essere.
L’essere bambino è un pregio che si perde durante la cavalcata della vita.
L’essere bambino regala la necessità  di mostrarsi sempre per come si è davvero, nel bene e nel male.
Mostrare ogni singola emozione: rabbia, frustrazione, felicità , amore o qualunque essa sia, senza paura di essere giudicati, rappresenta l’essere dell’essere fanciulli.
Poi si cresce.
Si diventa adulti e si impara l’arte di indossare una maschera ogni giorno – sempre diversa. –
Ogni mattina si sceglie una maschera, così come si sceglie un vestito.
Davanti allo specchio cerchiamo i cambiamenti avvenuti nella notte.
I nuovi solchi nati sul viso, come un aratro fa con la terra, modellano le pieghe vecchie e nuove.
Da lì trapelano i sentimenti che ci invaderanno in quella giornata; così li copriamo.
Ci omologhiamo a quello a cui vogliamo anelare, piuttosto che mostrare una piccola parte della nostra anima.
Decidiamo razionalmente chi dobbiamo essere quel giorno.
Una finzione continua con noi e gli altri.
È l’indossare continuamente queste maschere il motivo per cui nasce l’esigenza o la necessità  degli adulti, di voler di tanto in tanto rimanere soli.
Amici miei avete mai visto un bambino desiderare di voler restare solo?
No, assolutamente.
Al contrario, i bambini temono l’essere abbandonati, più di ogni altra cosa al mondo.
Temono di essere privati del mantello sicuro di un paio d’occhi adulti.
Mentre noi adulti abbiamo, sentiamo, la necessità  di purificarci, scrollandoci dalle stanche spalle tutte le menzogne raccontate nei giorni precedenti.
Così ci chiudiamo.
In silenzio, soli, ad essere ciò che siamo realmente.
A gettare via dalle spalle lo zaino colmo di maschere pronte per ogni evenienza.
Colmo di finzione.
Abbracciamo questa forma di purificazione – l’isolamento – per avere la possibilità  di riprendere, più forti di prima, la giornata successiva con una nuova maschera.
Questa convinzione è talmente radicata in noi, da non essere più in grado di riconoscere qualcuno deciso a mostrare solo se stesso.
Lo attacchiamo – spaventa. –
Spaventa trovarsi a pochi centimetri con qualcosa di sconosciuto.
Un essere umano vestito esclusivamente del suo io.
Una novità  che non ci appartiene.
Davanti a tutto questo, l’unica via di fuga è quella di combatterlo, scacciandolo come un appestato.
Senza immaginare di aver allontanato proprio ciò che cerchiamo da sempre: qualcuno che è solo se stesso.

Fiori

Cosa ne sanno loro?
Cosa ne sanno loro dell’isteria della gente?
Incapaci di vedere un nemico invisibile.
Cosa ne sanno loro dell’aria putrida?
Avvelenata dalla boria dell’essere umano.
Cosa ne sanno loro della pioggia?
Assente da così tanto tempo da non potersi nutrire.
Cosa ne sanno loro del sole?
Caldo nel momento sbagliato.
Loro non lo sanno.
Loro sono incuranti dell’orrore che li circonda.
Loro non lo sanno.
Loro non possono saperlo: sbocciano.

Cambiamenti

Non ho mai compreso come la notte riesca a cambiare le persone.
E’ una regola non scritta.
Tante giornate passano allo stesso modo, tutte uguali.
Una la fotocopia dell’altra.
O al contrario ognuna diversa dall’altra, ma la costante rimane, una costante c’è, esiste.
Sei te stesso, adagi il corpo sul letto, affievolisci l’ultima fonte di luce artificiale rimasta in vita per orientarti nello spazio circostante, rilassi le palpebre e attendi il sonno.
Superate le lunghe ore di oscurità , i flebili raggi del sole rischiarano la stanza.
Ritrovi prima il corpo e successivamente tutto quello portato dentro di te; siano esse paure, convinzioni, certezze, emozioni, sentimenti.
Ecco la costante:
la sicurezza di ricominciare la nuova giornata dallo stesso punto in cui la si era lasciata prima della visita di Morfeo.
Una delle poche certezze a cui affidarsi.
Invece no.
L’apparente certezza crolla, perde le sue fondamenta, si inabissa.
All’improvviso, non si sa come, non si sa perché, non si sa quando, qualcosa va storto.
Il sole inizia a illuminare la stanza, gli occhi riprendono vita lentamente, il corpo rimane immobile per qualche istante: è pesante, privo di sensibilità .
La mente cerca di comprendere, focalizzare, intuire cosa sia accaduto.
Passa in rassegna ogni angolo della stanza.
Ogni oggetto viene sottoposto ai raggi X.
Il cervello cerca di ricostruire il mondo circostante tentando di allinearlo ai ricordi custoditi all’interno della propria memoria.
Apparentemente sembra tutto uguale, ma qualcosa è cambiato.
Esteriormente sei sempre tu, ma dentro qualcuno ha sostituito qualche pezzo, ha riscritto qualche pagina, ha cancellato qualche ricordo o lo ha rimpiazzato con un altro, migliore o peggiore non si sa, ma diverso.
Ti guardi allo specchio, ogni ruga è al suo posto, ogni capello è rimasto incollato alla testa, ma non ti riconosci.
Qualcosa si interpone tra te e lo specchio, abbassi lo sguardo, pensi, cerchi di ascoltare quella voce interna che normalmente ha sempre tanto da dire, ma oggi è muta, oggi è stranamente assente.
Si prende gioco di te, nessun suggerimento.
Durante la giornata dovrai o potrai tentare di comprendere cosa non è più come prima.
Una beffa, un gioco senza regole o una fissata in contrasto con l’altra, tutto pensato solo per divertire quel voyeurista del destino.
Così tutto cambia con l’apparenza esteriore dell’essere tutto identico.
Cambiamenti che ti faranno percorrere strade differenti da quelle del giorno precedente.
Strade differenti in cui non troverai più gli stessi alberi ai lati, gli stessi fiori sui bordi, la stessa illuminazione, lo stesso percorso, lo stesso arrivo.
Forse ce ne saranno di più belli, forse di più brutti, di certo non potrai saperlo perché non potranno essere confrontati.
Forse all’arrivo troverai un regno in cui sarai il sovrano o forse all’improvviso finirai in un burrone senza fine.
E in questo mondo di incertezze l’unica certezza rimarrà  la certezza del cambiamento -subìto -.

Il mare

San Pietro in Bevagna – Manduria (TA)

Una immensa secchiata di toni di blu differenti.
Un’unica distesa di celeste in cui piccole pennellate di bianco si burlano degli spettatori disinteressati.
Riflessi dorati si inseguono come bambini con un pallone.
Tutto sembra naturale e scontato, anche il bello, quando si ha la fortuna di abituarsi a lui.

Rumore

Tra le mani un accumulo di carta sporcata dai pensieri di un signore con qualcosa da dire.
La pelle riscaldata dal calore proveniente dalla vicina stella – madre della nostra stessa vita. – 
Le orecchie piene del canto delle onde del mare mentre lottano tra loro: incapaci di rassegnarsi alla sconfitta.  
La sabbia morbida, ma compatta, sostiene il corpo, mentre i pensieri vagano liberi per campi ben coltivati.
Il piacere del sapere di non dover compiere azioni legate solo ad obblighi stabiliti da un pezzo di carta straccia.
Il benessere: omaggio di tutto questo, la scelta: volersene appropriare.
All’interno di questa cornice, una donna in lontananza.
Si avvicina con passo lento e costante calciando qualcosa di impossibile da riconoscere.
“Ma, da questo punto si ha l’impressione di essere su di un isolotto al centro del mare! Ti spiace se siedo anche io qui?”
“Fa’ pure.”
Il corpo esile ma ben proporzionato, lunghi capelli neri resi lucenti dalla luce, occhi azzurri illuminati dalla evidente voglia di vivere, viso dai dolcissimi lineamenti.
Seduta con le gambe stese, dopo aver spostato le mani dietro le spalle e sollevato il viso:
“sai, ho perso una persona importante.”
“Dov’è andata?”
“Non è importante dove, ma non c’è più.”
“E’ un bene o è un male?”
“Un necessario. Mi logorava l’anima, il cuore e la mente”
“Com’è andata via?”
“Rumorosamente e continua a far rumore, incessantemente, dovrei proteggere il mondo da lei.”  
“Non farlo, il rumore assorderà  chi le orbita attorno e fuggirà  come una lepre inseguita da una volpe.”
“Come fai a esserne certo?”
“Chi dice di esserlo. Ma se immagini il rumore come fosse una candela accesa, brucerà  e si consumerà  fino a spegnersi – lascia al tempo di compiere il suo mestiere – e ci sarà  il buio nel suo recinto.”
“Ma nel frattempo sporcherà  di cera calda chiunque ci sia attorno a tenerla per mano.”
“Chi si macchierà  e deciderà  di pulirsi gli occhi vedrà  nitidamente il buio lasciato da una candela ormai spenta. E in quel momento capirà  di essersi trovato vicino ad un oggetto capace di bruciare se stesso e imbrattare gli altri.”
Sbilanciandosi in avanti, voltò lentamente il viso fissandomi con i suoi grandi occhi sereni:
“tu chi sei?”
“Uno sconosciuto.”
“Non si parla agli sconosciuti.”
“Non lo abbiamo fatto.”
“E’ stato bello non parlare con te. Ciao.”
Si alzò in piedi e si allontanò dando le spalle al mare.

La pace

Le nostre giornate, solitamente, sono scandite da ritmi in grado di far impallidire un batterista metal mentre si esibisce in uno dei suoi assoli più riusciti.
Incastriamo il lavoro, gli impegni, le commissioni come fosse un immenso puzzle.
Puzzle costruito, pezzo dopo pezzo, facendo attenzione a scovare quello giusto al primo tentativo.
Ma ahimè, a volte capita, di prenderne uno errato e inevitabilmente tutto deve essere riprogrammato, rivalutato, aggiustato.
Un cascata di eventi difficile da contenere.
Allo stesso modo gestiamo il tempo libero.
Avidi nel voler imparare nuove attività , conoscere nuove persone, provare esperienze diverse, da non essere capaci di godere del presente.
Nella testa il pensiero ricorrente è uno solo: il momento successivo.
Lo facciamo tutti, lo faccio anche io.
Questa routine andrà  avanti finché non si avvertirà  l’opprimente necessità  di una pausa, di staccare, di dire basta.
E’ quello il momento in cui sfrutti la fortuna di avere a disposizione dei posti magici dove potersi ricaricare, svuotarsi, riprendere a vivere.
Ognuno di noi ne ha uno, non è un posto oggettivo, ma scelto tra tanti, il più delle volte trovato per caso.
Il mio: una panchina, verde.
In una piazza dalla pianta quadrata e illuminata interamente da un tiepido sole di giorno ed un esercito di lampade dai colori caldi di notte.
Circondata su tre lati da storici palazzi costruiti lì volutamente – per abbracciare chiunque passi o si fermi in quell’angolo – ricoperta da brillanti e levigate pietre naturali.
Il quarto lato aperto.
Una finestra affacciata su una distesa d’acqua azzurra mossa leggermente dai venti spinti verso il basso dalle vicine montagne. 
Acqua mai immobile, ricoperta da una fitta rete di increspature in movimento.
Questo movimento diffonde una delicata sinfonia dai toni lievi tale da permettere all’anima di riprendere a respirare.
Ed è lì, in quel posto specifico dove tutto si ferma, dove non ci sono lotte, dove si è soli con se stessi che tutto si riallinea, tutto ritorna alla normalità .
Perché nonostante ci siamo costruiti una vita fatta di affanni, regole, piccoli scontri  travestiti da consuetudini, a volte quello di cui abbiamo bisogno è solo un po’ di pace.

Primavera

L’inverno è stato messo alle strette.
Spinto nel suo angolo subisce, incapace di difendersi, i colpi bassi dei primi caldi portati dal sole.
E’ primavera.
Adesso è lei a farla da padrona e non intende cedere ai ricatti di qualche pioggia invadente, ma sporadica.
Tutto viene rianimato.
Le montagne vengono inondate da una secchiata di vernice verde scuro perdendo il consueto mantello grigio.
Le piante rinascono timide e piene di piccoli germogli rigogliosi.
I primi fili d’erba si affacciano alla nuova vita rompendo il pesante strato di terra che gli ha fatto da scudo e protetti durante il freddo appena lasciato alle spalle.
Sono coraggiosi loro, non temono di essere calpestati e se lo fossero raddrizzeranno la schiena più forti di prima.
Non si fanno abbattere da un inconveniente così banale e prevedibile.
L’insolenza di una comitiva di pettirossi è imbarazzante, non si preoccupano dei vicini animali intontiti dal prematuro risveglio, dopo essere stati coccolati dal letargo invernale.
Devono, anche loro ad ogni costo, partecipare alla festa della nuova vita.
Sentono la necessità  di cantare, urlare, cinguettare, rivendicare il loro diritto di esserci e farsi riconoscere.
Riemergono anche gli uomini.
Cercano, nel rinato tepore, la forza di abbandonare i luoghi sicuri in cui sono stati immersi nei mesi passati.
Una bolla di sapone fatta scoppiare non appena è stata di troppo.
Rinvigoriti dalla luce hanno ripreso ad animare parchi, boschi, prati, laghi e qualsiasi altro posto privo di un tetto, una copertura, qualcosa capace di oscurare la visuale sopra la loro testa.
La necessità  ora è di fare il pieno di caldo, riempire gli occhi con i colori della vitalità , tuffarsi nel verde per riemergere nell’azzurro.
I pittori coloreranno i loro quadri con colori caldi dando ai loro ritratti la forza di sollevarsi dalla tela e prendere vita.
I musicisti riempiranno lo spartito di note così vigorose che sembreranno voler ballare insieme alle evoluzioni praticate dai ballerini.
I poeti scriveranno versi non più inneggianti alla tristezza, ma alla felicità .
Si pensa al futuro.
Si fanno progetti.
Si è ottimisti.
Si cerca di emulare i fili di erba, quelli incapaci di farsi abbattere dalle piccole avversità  che inevitabilmente arriveranno, ci investiranno, ma verranno scrollati di dosso con un leggero movimento delle spalle.
Tutto è più facile, ottenibile, a portata di mano, basterà  chinarsi in avanti per afferrarlo.
Finalmente, ci si potrà  tuffare nella piscina colma di profumi con la corsia in direzione del nuovo periodo di buio pesto, ma nel frattempo potremo godere della bellezza avuta sotto il naso in ogni momento.
Bellezza nascosta solo dall’incapacità  di riuscire a volgere lo sguardo oltre il gelo.
Dopo lo sconforto dovuto ai disegni fatti dai pastelli grigi del freddo sulle tele del nostro quotidiano, avremo la sensazione di poter tutto, basterà  volerlo prendere.
Prendiamolo.

Immerso in se

Porto di Campomarino di Maruggio (TA)

Immerso nel suo silenzio, ascolta l’infrangersi delle onde del mare contro i possenti blocchi di cemento. 
Il profumo della brezza lo avvolge come un mantello invisibile. 
Il sole ancora caldo, mentre inizia il suo lungo tuffo nell’acqua cristallina, lo coccola cantando la sua melodia preferita. 
Nulla intorno a lui se non se stesso.