Breve storia per ragazzi da leggere, o far leggere, durante il periodo di natale.
È la storia della piccola Marie Stahlbaum che riceve in dono dal padrino uno splendido schiaccianoci di legno magico e animato di vita propria. Un eroe d’altri tempi, coraggioso e pronto a difenderà Marie dal malvagio Re dei topi, con sette teste e sette corone. Qui incontrerà la Principessa Pirlipat, nel Regno delle Bambole, tra pastorelli e soldatini d’argento, cestini di zucchero e canditi.
Leggere questo breve racconto serve per comprendere da dove nasce il celebre balletto di Caikovskij ancora oggi rappresentato nei teatri di tutto il mondo.
Una mamma si riconosce da come ti guarda, con gli occhi sorridenti, sempre, anche se l’hai offesa un momento prima oppure l’hai scacciata un momento dopo, perché non ti guarda con la vista, ma ti guarda con l’amore che straborda dagli occhi.
Una mamma si riconosce dal profumo che emana, sa di buono, sa di quell’ultimo biscotto preparato prima che lasciassi la sua casa per affrontare l’oceano della tua vita. Sa della certezza nell’amore per te quando una fragranza, incontrata per caso, scrollerà con forza l’armadio dei ricordi di lei e come un’onda ne sarai travolto.
Una mamma si riconosce dal suono della sua voce, quella imparata ad ascoltare prima che ti affacciassi alla vita per diventare uomo. La voce che ti ha rassicurato quando le tenebre oscuravano la vista e non avevi altro per sfuggire alla paura. La voce sempre pronta ad ascoltare ciò che non dici, illudendoti di non farla preoccupare, ma che sa sempre se un mostro, sotto il letto, ti sta tormentando.
Una mamma si riconosce dal sapore dei suoi baci, sempre presenti, sempre pronti a guarire la ferita inferta dalla caduta più rovinosa che la vita possa infliggerti. Il bacio della mamma è unico, non può essere comprato per trenta denari perché non potrebbe tradirti mai.
Una mamma si riconosce dalla carezza che ti regala, perché la carezza di una mamma è ruvida, come la pelle delle sue mani, consumate da una vita passata a usarle per il tuo bene, usate per rimetterti in piedi dopo essere caduto e offerte come rifugio quando tutto intorno a te è mancato. Per questo la carezza di una mamma non si sente sul viso, ma si vive con il cuore.
Così si riconosce una mamma e oggi di tanti anni fa ne è nata una: la mia.
“Questi aggeggi moderni non riuscirò mai a capirli… ma come si fa, ah ecco…” “Pronto? Ciao papà!” “Ciao Marco, buon compleanno.” “Grazie papà, cosa stai facendo?” “Marco, finisco di prepararmi e porto la mamma al mare.” “Papà, credi sia il caso di farlo?” “Certo, oggi è il nostro anniversario e lei ama il mare, lo sai.” “Lo so, papà, lo so. Va bene, come vuoi, buona giornata, papà.” “Ciao Marco.”
14 agosto 1965.
Era una mattina d’estate. Il sole, appena svegliato dal breve riposo notturno, cominciava a scaldare tutto ciò capitasse sotto il suo rassicurante mantello dorato. Il cielo era limpido, qualche batuffolo di cotone bianco interrompeva l’immensa distesa azzurra, dando l’impressione di aver trasferito il mare con le sue increspature al di sopra delle chiome degli alberi. La terra non ancora arsa dal sole brulicava di una distesa uniforme di piccoli fili d’erba: un tappeto, sotto il quale si nascondevano tanti animaletti alle prese con il lavoro quotidiano, da portare a termine prima dell’arrivo del buio. Un gruppo di uccellini svolazzava da un albero all’altro solo per il piacere di rincorrersi, e cinguettava felice spargendo l’allegra melodia in ogni direzione. L’alba, da poco superata, aveva distribuito nell’aria il suo tipico profumo di fresco, quello capace di richiamare alla memoria i ricordi felici, quello che si attacca alla pelle e ti sussurra nell’orecchio: goditi questo momento, rivivi le emozioni chiudendo gli occhi e aprendo il cuore.
L’albero più maestoso della zona proiettava la sua ombra come fosse un dipinto in bianco e nero, e faceva da scudo a Fabio, un giovanotto di vent’anni nel pieno della vita. Fabio quella notte l’aveva passata, fuori, nei campi. Il caldo opprimente di quei giorni lo aveva costretto a cercare refrigerio nell’unico modo possibile in quegli anni: all’aperto, con un vecchio lenzuolo a fare da cuscino. Aveva usato il tronco di quel vecchio, ma gigantesco albero, come lo schienale di una poltrona. Si sentiva un re adagiato sul trono mentre guardava esibirsi per lui, sopra la testa piena di riccioli neri, la compagnia dei danzatori delle stelle, con la luna a fare da direttore d’orchestra. Fu con lo spettacolo gratuito della natura negli occhi ad addormentarsi, e fu con gli zampilli caldi dei raggi del sole a svegliarsi. Quel sabato mattina Fabio era stato dispensato dai quotidiani lavori della terra, un regalo da parte del padre, impegnato in commissioni più urgenti. Se ne stava lì, immobile, sul suo giaciglio improvvisato, la sera prima, con lo sguardo rivolto verso la pianura incondizionata, a farsi coccolare dalla leggera brezza proveniente da ovest. Il pezzo di terra in cui Fabio passava le giornate, stancandosi e sudando da mattina a sera, confinava con un vecchio sentiero battuto ricoperto da un miscuglio di erba secca e pietrisco informe. Un mix letale per chi avesse avuto l’ardire di non controllare dove poggiare i piedi, prima di tentare la traversata. Un mix letale per Anna, quella mattina, troppo impegnata ad evitare l’attacco di una ferocissima ape armata fino ai denti (e troppo impegnata a non controllare dove mettere i piedi). Per questo le fu inevitabile il tuffo privo di grazia sul manto duro della strada pronto ad abbracciarla. Il capitombolo fu talmente plateale e rumoroso da non passare inosservato agli occhi di Fabio, che aveva intravisto la ragazza con la coda dell’occhio pochi istanti prima del fattaccio. Forte della giovane età, del riposo accumulato nelle ore notturne e dei muscoli ben allenati, con pochi balzi si portò immediatamente al lato di Anna, e porgendo la mano si rivolse a lei dicendo: “Sei caduta?” Come risposta ebbe un sonoro e antipatico “No, sono qui a tenermi le ginocchia perché mi mancavano e hanno bisogno di un abbraccio!” “Hai ragione, ho detto una sciocchezza. Ti sei fatta male?” “No, cado perché mi riempie di felicità.”
Anna era a terra, rannicchiata su se stessa; si teneva le ginocchia, cercava di proteggerle con le mani come uno scudo protegge il suo soldato. Un rivolo di sangue, oltrepassando la barriera delle dita, precipitando verso il basso, sporcò il lato della scarpa bianca. Il viso piegato in avanti nascondeva gli occhi tenuti chiusi a causa del dolore, serrati anche durante quel primo scambio di battute, non andato del tutto bene fra i due. Fabio, rimasto in silenzio, aveva tenuto la mano tesa, aspettando di ricevere quella di Anna, aspettando di poter essere utile con un gesto, piuttosto che con le parole. Lei, stretta in quella morsa, non l’aveva ancora degnato di uno sguardo. Passati gli attimi in cui il dolore è più acuto, Anna aprì gli occhi e voltò la testa verso Fabio senza lasciar andare la presa. Quel preciso istante fu il momento in cui si videro per la prima volta. Quel preciso istante fu il momento in cui i loro occhi si incontrarono. Quel preciso istante. Fu il momento in cui i loro cuori smisero di battere autonomamente e iniziarono a battere l’uno per, tenere in vita, l’altro. Come lo schiocco di una frusta, improvvisa, sonora e quasi invisibile, giunse l’amore, appropriandosi del corpo, della mente e dell’anima dei due ragazzi. Se fosse stato presente, uno spettatore avrebbe visto due anime sovrapporsi e trasformarsi in purezza dando vita a un sentimento unico, totalizzante, imprescindibile; così, se Aristofane fosse stato lì avrebbe potuto confutare il suo mito raccontato durante il Simposio. Fabio e Anna capirono immediatamente cosa era successo: pur non avendolo mai provato prima, riconobbero l’amore vero. Una mole immensa di parole, pagine, pensieri sono state usate per descrivere il sentimento più ricercato tra gli uomini. Qualsiasi forma d’arte ha tentato attraverso la pittura, la musica, la scultura di dare forma a ciò che di più intangibile possa esistere, rappresentare l’emozione capace di far scoppiare guerre feroci in suo nome: l’amore. L’amore è così, finché non lo si prova la prima volta si cerca ad ogni costo di dargli una fisionomia, di visualizzarlo. Sentiamo la necessità di arrivare preparati al primo appuntamento con lui perché troppo preoccupati di non riconoscerlo, senza immaginare, senza sapere, senza renderci conto che sarà sempre lui a riconoscere noi. È un suo compito, una sua prerogativa. La natura, quando creò l’uomo, decise per noi, e noi possiamo solo sottometterci a questa regola. Forse è giusto così; perché prendere per la prima volta un pugno in faccia, all’improvviso, potrà, pur, fare più male del necessario, ma lascerà il ricordo intatto così com’è, per sempre, così come è il ricordo dell’amore. Imbattersi in lui, nell’amore, all’improvviso, disorienta, sconvolge, ma una volta provato crea dipendenza e non si può più farne a meno. L’amore è la sostanza stupefacente creata dalla natura per farci raggiungere vette inesplorate di felicità, ma allo stesso tempo capace di gettarci nel baratro più profondo della disperazione. L’amore è il senso che la morte dà alla vita, e Fabio e Anna, nel momento in cui unirono i loro occhi, furono travolti da una valanga di emozioni, diventando una persona unica in due corpi distinti. Anna, ripresa dallo sbigottimento dovuto all’eruzione di sensazioni che l’avevano invasa, accettando la mano di Fabio, si alzò in piedi, e lui poté fissare nelle mente, come una fotografia, l’immagine della donna più bella che avesse mai visto. I lunghi capelli biondi, racchiusi nella immancabile treccia, adornavano il viso pieno di vitalità; gli occhi nerissimi facevano da contrasto alla pelle chiara. Ma a colpire Fabio fu la sensazione di serenità emanata dal sorriso spuntato per caso sulle labbra. “Come ti chiami?” chiese Anna, mentre il cervello le ordinava di lasciargli la mano e il cuore di stringergli anche l’altra. “Fabio” fu la risposta sottovoce. Aveva paura, anche, di farsi sentire a causa dei primissimi rimbrotti di Anna. “Si è strappato il vestito e mi sanguinano le ginocchia. Fabio, invece di fissarmi hai un po’ d’acqua per potermi ripulire?” Fabio tentò di rispondere, ma riuscì solo ad emettere dei suoni senza senso capaci di far ridere di gusto Anna, e quella risata riuscì a rilassare Fabio privandolo di qualche freno inibitore di troppo. “Sei bellissima, e non ho mai visto una ragazza diventare magnifica mentre ride.” Anna, per non tradire l’imbarazzo dovuto a quella affermazione tanto spontanea, quanto inattesa, ma in grado di farle tremare le gambe, rispose con un fuorviante “Tu sei strano, sei incapace di dire la cosa giusta al momento giusto.” Disse accigliando gli occhi. “Abito in quella casa vicino agli alberi di noci. Dentro c’è mia mamma. Puoi ripulirti lì. Non ti ho chiesto come ti chiami.” Disse Fabio spostandosi davanti a lei e mostrando il viso forte e gli occhi verdi. “Anna, mi chiamo Anna”. Senza lasciarle la mano e senza risponderle, Fabio la costrinse a seguirla, ma Anna non avrebbe fatto nulla per opporsi alla decisione del ragazzo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per continuare a sentire il senso di protezione che Fabio le infondeva.
I due ragazzi entrarono in casa dove la signora Marta, madre di Fabio, era alle prese con una teglia di biscotti al burro appena sfornati. Voltandosi, vide il figlio con una strana luce negli occhi tenere per mano una sconosciuta. Sconosciuta incapace di nascondere la necessità di non spostare gli occhi da Fabio. Aveva paura, distogliendo lo sguardo dal ragazzo, di perderlo per sempre. Fabio raccontò alla madre cosa fosse successo, e Marta iniziò a medicare Anna come fosse sua figlia. In realtà a Marta non servivano spiegazioni: aveva riconosciuto, affacciandosi dalle finestre degli occhi che danno sull’anima del figlio, la tempesta abbattutasi nel cuore del ragazzo, e individuando in quella ragazza solare il motivo per averla promossa a presenza fissa in casa sua da quel giorno in avanti. Ripulita dai detriti rimasti attaccati alla pelle a causa della caduta, e tolto il sangue dalle ginocchia, ringraziò la mamma di Fabio. “Signora, è stata davvero gentile.” “Chiamami Marta. È un piacere aiutare gli amici di Fabio” e, rivolgendo lo sguardo al figlio, aggiunse “soprattutto quando ho di fronte una donna speciale quanto te.” “Marta, è una delle più belle bugie che mi abbiano raccontato. Ora vado, buona giornata.” replicò Anna mentre oltrepassava la porta sul retro, seguita da Fabio. I ragazzi si allontanarono dalla casa restando in silenzio. Nessuno dei due aveva voglia di mettere a tacere i mille pensieri che il cuore urlava a tutto il corpo, mentre la testa cercava invano di disciplinare l’assemblea di emozioni arrivate da troppo poco tempo, a spazzare via ciò che la vita aveva insegnato a loro fino a quel momento. Allontanatisi abbastanza per non essere visti, Fabio sussurrò “Anna, voglio rivederti.” “Vuoi? E chi credi di essere? Sono io a concederti la possibilità di raccontarmi chi sei.” rispose la ragazza mordendosi leggermente il labbro superiore. “Posso avere l’onore di allietarla con i racconti della mia vita, mademoiselle?” Replicò Fabio, simulando una finta e plateale riverenza. Anna iniziò a ridere coprendosi la bocca con una mano, un gesto tanto istintivo quanto pieno di dolcezza, agli occhi di Fabio, da fargli intuire che le risposte di Anna, sempre sul filo dell’indisponenza, erano solo un modo per proteggere e non mostrare a chiunque quell’anima gentile, anima rimasta celata fino a quel giorno. Fabio promise a se stesso di riuscire a scoprire chi si nascondesse dietro quel mantello di bellezza e finta indisponenza, e si disse che avrebbe provato con ogni mezzo a mantenere sempre vivo il sorriso sul viso di Anna. “Sabato prossimo nel tardo pomeriggio andrò in paese. Se vuoi puoi accompagnarmi…” Fabio non fece nulla per nascondere la felicità esplosa sul suo viso nell’accogliere la proposta di Anna. “Ci sarò.” Rispose, mentre la ragazza continuò. “Ti aspetto alla fine della grande strada, dove inizia il bosco di pini.” e lanciandosi come un gatto sul suo gioco preferito gli regalò un bacio tanto delicato quanto pieno di dolcezza sulla guancia sinistra. Quella notte Fabio non ricevette la visita di Morfeo. La sua mente era troppo impegnata a rivedere ogni istante del film in cui era stato il protagonista principale durante il giorno, mentre il cuore, con in mano un secchio gigante di potentissima colla, provvedeva a bloccare su una parete il ricordo di ogni sussulto provato. Anna, al contrario, usò i ricordi della giornata per sprofondare in un dolcissimo sonno ristoratore, coccolata dal pensiero inconsapevole di aver appena scritto la prima pagina del nuovo libro della sua vita, quello che l’avrebbe accompagnata, tenendola per mano, sulla via della serenità. I giorni passarono veloci per i due ragazzi. Entrambi avevano puntato il cannocchiale sulla sera in cui si sarebbero potuti finalmente rivedere. Utilizzando un’immaginaria macchina del tempo, installata nella mente, hanno vissuto quel secondo incontro milioni e milioni di volte. Cercavano di prevedere ogni possibile scenario e vagliando ogni probabile battuta e risposta che si sarebbero potuti dire; la solita necessità di voler arrivare preparati all’incontro in cui solo l’impreparazione avrebbe giocato il ruolo più giusto e spontaneo per tutti.
“Mamma, io esco; vado in paese.” Urlò Fabio, mentre scappava da casa impaurito dalle possibili richieste della madre sul suo abbigliamento stranamente elegante. Anna, al contrario, non si preoccupò di cosa indossare: la sicurezza di ciò che mostrava quotidianamente all’esterno la tranquillizzava. Fabio arrivò con quindici minuti di anticipo sul posto indicato dalla ragazza. Era emozionato, così come era emozionato il suo cuore; anche lui, come Fabio, girava in tondo infastidendo gli altri organi, quando all’improvviso sia Fabio che il cuore si bloccarono. La vide all’improvviso a pochi passi da lui, e le parve più bella della prima volta. L’attesa di quei giorni passati lontani aveva amplificato la mancanza, mentre l’istinto, in combutta con i ricordi, aveva ricostruito nella sua mente un’immagine meno affascinante, con lo scopo di poter infliggere nuovamente una stilettata tra le pieghe dell’amore, un secondo colpo in grado di imprimere a vita, come un tatuaggio, il viso di Anna sul cuore di Fabio. Anna, per l’occasione, aveva raccolto i capelli, rinchiusi in una gabbia di raso rosso con la pettinatura, che lasciava scoperto il collo e parte delle spalle. La luce del tramonto metteva in risalto le forme sinuose del corpo, avvolto in un lungo vestito tenuto volutamente più aderente. Si fermò a pochi centimetri dal viso di Fabio, rimasto immobile; si fissarono negli occhi per lunghissimi istanti. Entrambi si scambiarono parole piene di incredula emozione, rimanendo in silenzio. Quel momento, provato tante volte nella loro mente, stava andando nell’unica maniera non immaginata, in silenzio. Visti da fuori, i ragazzi sembravano due statue di cera, se non fosse stato per il luccichio provenire dagli occhi. Mentre i corpi rimanevano lontani, le anime si abbracciarono e si promisero, senza chiedere il consenso, vita comune, qualunque cosa fosse successo. Tutto intorno a loro scomparve. Luci, suoni e profumi si appiattirono. Si trovarono immersi in una nebbia capace di farli sentire al sicuro e lontani da tutti, amplificando il senso di serenità, e in quell’istante l’amore pervasivo dei due ragazzi sfociò in un inatteso lungo bacio, mentre i corpi si fondevano tra di loro. L’unione delle labbra, il momento in cui uno respira l’ossigeno dell’altra; l’avvertire il tocco delicato e morbido della pelle calda; il gustare il sapore dell’amore, dell’ignoto ma profondamente rassicurante; il vivere sensazioni umane tramite emozioni irrazionali: quello è il momento in cui la vita smette di essere un insieme di attimi da dimenticare, per trasformarsi in una fotografia indelebile da portare sempre stretta tra le braccia. Quel lungo abbraccio di corpo e anima, durato pochi istanti nella realtà, ma un tempo immensamente lungo per Fabio e Anna, confluì in due mani intrecciate mentre si avviarono sul sentiero, in direzione del paese.
Le giornate passavano veloci. I due ragazzi continuarono a vivere in quell’angolo di mondo fatto di lavoro duro, impegni quotidiani scanditi dal ritmo delle stagioni e da momenti ritagliati qua e là per stare insieme. In quegli anni non era scontata la possibilità di poter passare il tempo insieme, così come non era scontata la possibilità di avere lunghi momenti di solitudine. Non esistevano telefoni, messaggi, applicazioni social e altre diavolerie elettroniche in grado di avvicinare, stando lontano, le persone. La gente, per parlare, per essere presente, doveva incontrarsi, guardarsi negli occhi o stringersi la mano. L’assenza era assenza e non poteva essere alleviata da nulla, così come la mancanza era il pasto quotidiano degli innamorati. Pasto amaro, ma con il pregio di tenere sempre in vita i sentimenti alimentati dalla forza dei ricordi. Le giornate, gli atteggiamenti, il pensiero, ciò che era giusto o sbagliato aveva una connotazione molto diversa dai nostri giorni, e Fabio e Anna non potevano né cambiare queste abitudini, né avevano voglia di farlo; erano cresciuti con quella mentalità e a loro piaceva sostenerla e seguirla. Questo era il motivo che li portò a prendere una decisione un pomeriggio di gennaio, a quattro anni di distanza dal primo incontro. Tentavano di scaldarsi a vicenda per scacciare il freddo incessante e crudele dell’inverno: li aveva tenuti lontani per venti lunghi giorni. La lunga astinenza dai loro stessi sguardi li aveva stremati. Non era mai successo prima. Si rividero e iniziarono a correre l’uno verso l’altra, senza prestare attenzione alla neve alta che inzuppava i vestiti asciutti. Il loro abbraccio fu più simile a uno scontro. La voglia di fare, incetta del profumo della pelle, bruciava la ragione. Lunghi e appassionati baci rinfrescarono i ricordi lasciati a gozzovigliare per troppi giorni. I due ragazzi in quel momento avevano solo la necessità di stare insieme, e cercarono riparo dal freddo – e da occhi indiscreti – all’interno di una cavità naturale nel bosco dei pini. Fabio si sedette accogliendo Anna al sicuro, tra le braccia, e lei usò il corpo del ragazzo come giaciglio in cui sentirsi nuovamente una bimba coccolata (dai genitori). La testa di Anna poggiava sul viso di Fabio e lui sentiva il profumo dei suoi capelli. Fragranza che aveva imparato a riconoscere e fatto diventare un’estensione del suo corpo. Avevano un rituale: ad ogni incontro si scambiavano un fazzoletto di stoffa che avevano lasciato nel letto mentre dormivano, impregnandolo con il proprio profumo (del proprio essere) e se lo scambiavano; avevano sempre con loro un pezzo dell’altro, un amuleto magico in grado di scatenare la mandria dei ricordi a ogni respiro. Stringendola più forte, Fabio le disse “Questi giorni sono stati troppo lunghi. Ho sentito la mancanza strapparmi la pelle, cercava a tutti i costi di farmi impazzire e ci è quasi riuscita.” “Dai, quanto sei drammatico.” rispose Anna con la sua solita impertinenza, tentando di minimizzare sensazioni vissute e provate allo stesso modo. Lei lo conosceva. Se avesse risposto sinceramente, utilizzando i pensieri affollati nella mente che le urlavano: amore hai ragione è stata troppo dura, non ero preparata, e starti lontana diventa ogni giorno più difficile, Fabio si sarebbe rattristato, non potendo trovare una soluzione capace di renderla felice. Lui non si fece intimorire dalla battuta pungente. Anche Fabio conosceva Anna come se stesso e quelle parole non lo sorpresero. Le ignorò continuando a seminare, lanciandoli in aria, i pensieri spuntati come funghi a settembre, dopo una giornata di pioggia. Dando forza alle frasi spinte sulle labbra dalla sicurezza dei sentimenti, aggiunse “So cosa possiamo fare, anzi so perfettamente cosa posso fare io.” Mentre lei lo guardava con aria interrogativa, non comprendendo dove volesse portarla con quelle affermazioni tanto sicure quanto improvvise, lo vide spostare la mano destra e cercare qualche oggetto abbandonato in quel ricovero di fortuna. Anna non capiva cosa stesse cercando di fare. Il posto non offriva nulla di più di pochi fili d’erba secca. Era talmente desolato e poco protettivo da essere stato snobbato anche dagli animali rimasti svegli durante l’inverno. Fabio prese quattro o cinque fili d’erba, scegliendoli tra i meno secchi. Facendo ricorso alla manualità imparata nell’intrecciare cesti e sedie in vimini iniziò a creare una piccola treccia, annodando le due estremità. Concluse l’opera di altissimo artigianato, avvolgendo la treccia attorno al suo dito legandola a formare un piccolo cerchietto. Tutta la complessa operazione la svolse continuando a tenere Anna tra le braccia; ma, appena ebbe finito, liberò le sue gambe dal peso della ragazza. Anna era seduta sul manto freddo di terra battuta. Fabio si spostò davanti a lei, assunse la posizione di un credente di fede musulmana mentre prega rivolto verso la Mecca. Sollevò la mano stringendo l’anello composto pochi minuti primi e con voce certa, priva di tentennamenti, pervaso da una strana sensazione di sicurezza le disse “Credo di non aver mai desiderato nulla di più nella vita. Mi sono innamorato di te nel primo momento in cui i nostri occhi si sono incontrati. Continuo a innamorarmi ad ogni tuo sorriso e voglio passare ogni giorno della mia vita con te. Vuoi sposarmi?” Il viso di Fabio emanava serenità, tranquillità, voglia di vivere, dava l’impressione di aver recitato quella scena ogni santo giorno, tanto era priva di timori o imbarazzi. Anna fu colta alla sprovvista. Vedere l’uomo che amava compiere quel rito letto nei romanzi, ascoltato tante volte dalle signore del posto, immaginato con le amiche, le riempì gli occhi di lacrime. Sentì crescere un uragano di emozioni. L’amore provato fino a quel momento dentro di lei esplose, scalzando ogni cellula da sentimenti diversi. Si gettò d’impeto, con le braccia aperte, addosso a Fabio, ed entrambi caddero a terra. Con la voce rotta dal pianto rispose “sì, sì, sì, sì e un milione di altre volte sì! Scelgo te, e scegliendo te scelgo me e scelgo noi. Oh, Fabio, sono così felice, vorrei urlarlo al mondo!”
I ragazzi scelsero, come data per il giorno più importante della loro vita, la stessa data in cui si conobbero. Credevano nelle coincidenze, sentivano il bisogno di fare un regalo al destino e, dovendo o potendo stabilire un giorno, scelsero: venerdì 14 agosto 1970.
Il destino, da par suo, pur essendo beffardo, accolse il regalo e cambiò le carte in tavola. Aveva scritto la trama del loro percorso insieme, ma la cambiò in corsa. I preparativi iniziarono molto presto la mattina: il sole aveva già dato il buongiorno a tutti. C’era una sposa da preparare, e uno sposo da tenere a freno. Genitori troppo occupati nell’adornare il piccolo tavolo, spostato al centro della cucina, da farsi prendere dall’emozione. Frutta fresca, biscotti secchi, dolci alle mandorle ed una torta ripiena di marmellata, pronti per essere offerti a parenti nuovi e acquisiti dopo la cerimonia, furono disposti meticolosamente, cercando di creare sul piano rigido ricoperto con una tovaglia di lino ricamato, un piccolo arcobaleno di leccornie e genuinità. Il parroco della piccola Basilica Minore aveva preparato, la sera precedente, sia l’altare sia i paramenti più belli; il sacramento del matrimonio andava officiato come Santa Romana Chiesa ordina. Tutto era pronto per unire le anime dei due ragazzi. Un mantello cucito utilizzando cotone di vita comune, rispetto e verità andava avvolto attorno a loro, fissato con ceralacca e marchiato con il timbro riportante l’effigie del “Finché morte non ci separi”. Ma quello era un compito demandato a Dio, e solo Dio poteva e doveva farlo.
La chiesa era gremita. Amici e parenti avevano occupato ogni centimetro del resistente legno marrone, di cui erano fatte le panche ordinate in due file parallele. I monelli erano stati lasciati fuori dal luogo sacro, si rincorrevano. Meglio tenerli occupati fra di loro, che costringerli ad un silenzio poco pratico per la loro età. Fabio attendeva, ritto come un soldato sull’attenti, in piedi, alla destra della navata. Un irriverente raggio di sole, infilatosi attraverso il rosone, e infrantosi sul vetro colorato posto alla base della cupola, lo torturava solleticandogli la guancia, ma in realtà illuminava, rendendoli più lucenti del solito, i riflessi verdi degli occhi. Anna varcò con passo leggero il portale con protiro centrale: era radiosa. L’abito bianco, privo di frivolezze eccessive, la vestiva allungando la figura esile. Lo aveva cucito lei stessa, ed era come l’aveva desiderato. Uno stilista non sarebbe stato in grado di modellare con tanta precisione ogni dettaglio inserito con uno scopo preciso. Le braccia, coperte dai lunghi guanti bianchi, si intonavano con i piccoli intarsi del corpetto morbido. Tra i capelli faceva capolino qualche fiorellino di campo. Il sorriso occupava gran parte del volto, mentre la gioia invadeva per intero corpo e spirito. La luce interiore era così evidente, da oscurare tutto ciò capitasse intorno a lei. Teneva, con la mano sinistra una piccola composizione floreale, mentre con il braccio destro stringeva il padre. Quel signore tutto d’un pezzo, per Anna guida dal primo respiro, era stato un modello, un oracolo su cui fare incondizionatamente affidamento. Lui, allo stesso modo, amava la figlia di un sentimento così profondo da non aver mai immaginato che un giorno sarebbe diventata la donna più importante di un altro uomo. L’unico pensiero, capace di riempire la mente, durante il breve percorso fino all’altare era “La perdo senza perderla. La sera, prima di dormire, non mi salterà più al collo per dirmi sei il papà più mamma che esista.” Per un padre mettere la mano della figlia in quella di uno sconosciuto è la prova più ardua richiesta dalla vita. La richiesta di rinunciare ad essere il porto sicuro in cui rifugiarsi, a non poter più rappresentare l’uomo più bello, più forte, più intelligente, più tutto. È la prova d’amore per eccellenza. Un padre donerebbe la vita per i figli, ma in quel momento si sentiva come un libro vecchio tenuto da sempre sul comodino. È lì, lo hai letto migliaia di volte sfogliando le pagine a casaccio. Ha fatto da piano ad altri libri poggiati sopra di lui, letti e accantonati, ma nonostante ciò è rimasto sempre lì, pronto per essere ripreso nei momenti tristi e felici, perché sai che c’è. Quel libro rappresenta la certezza dell’esserci, ma il suo tempo ormai è scaduto. Sta per essere riposto nella libreria insieme agli altri, nel primo posto libero, forse quello in alto a destra dove non arriva mai nessuno a prenderlo, e serve una scala per arrivarci. Rischia di avere come compagno di banco un testo di barzellette o un manuale inutile, continuando ad accumulare polvere sulla testa. “Fabio, promettimi solo di riportarmi mia figlia se ti dovessi accorgere di non riuscire più a renderla felice” gli disse. In quel momento una lacrima dava vita ad una nuova ruga sul viso provato, e gli consegnò la mano della donna più importante. “Te lo prometto” rispose Fabio, serio in volto, perché era una promessa fatta anche a se stesso in quell’istante. Il padre di Anna rientrò tra i banchi e i due ragazzi finalmente si tennero per mano. Si guardavano. Per un breve momento hanno avuto l’impressione di vedersi con gli occhi dell’altro, ed hanno visto cosa provassero l’uno nei confronti dell’altro. Era l’inizio di una nuova vita insieme, e da quel giorno non si sarebbero più lasciati. La cerimonia oltre ad essere emozionante ebbe dei momenti spensierati. Il parroco aveva celebrato abbastanza matrimoni da essere conscio di dover mettere gli sposi a proprio agio, ripulendoli dalla patina di tensione che inevitabilmente la giornata si porta dietro. Alla fine del rito il preposto fece uscire i presenti. “Signori, vi invito ad aspettare fuori dalla chiesa. Questi due ragazzi sono arrivati davanti a Dio soli, come due persone distinte, adesso verranno tra di voi come una sola famiglia legata dall’abbraccio del Signore.” Si mise al centro tra Fabio e Anna, e tenendoli per mano li accompagnò verso l’uscita. Percorsero la navata in tre, ma ad un passo dal grande portone di legno, ricoperto con una lastra di ottone piena zeppa di immagini sacre, unì le mani dei due ragazzi intrecciando le dita e sussurrando sottovoce “Le mani siano sempre una al fianco dell’altra, una dentro l’altra e mai una sopra l’altra. Adesso dovete camminare insieme, sia l’amore reciproco l’unica vostra guida.” E li diede in pasto ai parenti festanti. Li accolsero con abbracci sinceri, ricoprendoli di riso. Fabio e Anna, durante i preparativi del matrimonio, decisero di non poter vivere nello stesso posto in cui crebbero. Il lavoro dei campi non assicurava un futuro sereno, ma soprattutto entrambi coltivavano in segreto un sogno: vivere vicino al mare. Si rimboccarono le maniche, e aiutati dallo zio Antonio, Fabio trovò lavoro come apprendista nella bottega di un falegname. Anna, al contrario, avendo imparato tutti i trucchi del mestiere dalla madre e dalla nonna, decise di fare la sarta usando casa come laboratorio. Zio Antonio, dopo qualche ricerca, fece anche l’ulteriore miracolo: riuscì a trovare un piccolo nido, davanti al mare, nel paese più vicino a quello dei genitori. In realtà lo zio Antonio non era un parente diretto, ma la persona presente in ogni famiglia, amico di tutti. L’uomo da interessare quando c’è qualche problema da risolvere. L’uomo mosso esclusivamente dal bene e così vicino alla famiglia da guadagnarsi sul campo l’appellativo di zio. L’abitazione trovata era piccolissima; un paio di stanze al pian terreno. Era tutto ciò che volevano, era tutto ciò di cui avevano bisogno. Quel tetto era il luogo dove trovare l’altro, il posto in cui il pensiero poteva planare libero sicuro di atterrare tra le braccia rassicuranti della famiglia appena nata. Solo pochi metri separava l’unica finestra dalla spiaggia sabbiosa. La prima volta che Anna mise piede in casa si diresse direttamente verso quella finestra, l’aprì, e vide l’orizzonte tuffarsi nell’immensa distesa d’azzurro. I due colori giocavano a mescolarsi. Tentavano di confondere gli occhi movimentando i confini, mentre i raggi del sole esplodevano, a contatto con l’acqua, in milioni di piccoli luccicanti coriandoli monocolore. I minuscoli puntini luminosi si lasciavano dondolare leggere dal movimento sinuoso delle onde. L’unico suono che si udiva provenire dalla direzione del mare era lo sciabordio dell’acqua infranta sulla sabbia morbida, trasportando sul dorso il fresco profumo dell’immenso. Bastò lo spettacolo della natura, l’idea di poterne godere ogni giorno, anche nei periodi in cui il mare sarebbe stato arrabbiato a far dire ad Anna “È il posto giusto, è la casa giusta. Qui potremo avere la nostra pace, e costruire il nostro futuro.” Continuando a fissare il dipinto in movimento, Fabio tentò di replicare ma, con poca convinzione, aveva riconosciuto la determinazione della sua voce. “Anna non hai guardato nulla della casa.” Lei, voltandosi di scatto, con gli occhi sorridenti e la voce certa, appoggiando entrambi i gomiti alla base del vetro aggiunse “Fabio, ci sei tu, c’è il nostro mare. Io non ho bisogno d’altro, il resto lo costruiremo insieme.” “Come vuoi.” Fu l’unica risposta possibile, “Vedi, continuo ad avere ragione. Fabio, non hai scampo sei condannato ad ammettere la mia superiorità.” disse senza poter contenere la felicità che le stringeva lo stomaco, scoppiando in una fragorosa risata. “Sei la condanna desiderata da tutti, ma solo io potrò scontarti.” Replicò lui con un sorriso dolcissimo stringendo le labbra e arcuandone verso l’alto i lati della bocca.
Nel tardo pomeriggio la cerimonia era finita. La piccola casa di mare conteneva già la maggior parte delle loro cose. Erano state portate nei giorni precedenti, immediatamente dopo averla ripulita. Anna aveva cercato di arredarla con quel poco che aveva, mentre le due mamme hanno provveduto al rito della “vestizione del letto”. Una vecchia abitudine contadina, una forma di scaramanzia persa da anni, voleva che il letto matrimoniale degli sposi fosse preparato, per la prima notte di nozze, dalla mamma e dalla suocera, rigorosamente senza farlo toccare al nuovo nucleo familiare. Il letto poteva essere sfiorato e disfatto dagli sposi solo dopo la benedizione dell’Altissimo. Iniziarono la nuova vita insieme prima di sera. Fabio aprì la porta e prendendo in braccio Anna oltrepassarono l’ingresso: (Anche questo) l’ennesimo rituale era stato rispettato. Le giornate in quella casa passarono felici. Fabio imparò velocemente il nuovo lavoro, aveva talento per i mestieri manuali, e in poco tempo conobbe e divenne amico di tutti. Allo stesso modo Anna portò avanti una florida attività sartoriale, la minuziosità e la precisione dei suoi lavori le procurò in pochissimo tempo un folto numero di clienti. I due ragazzi erano ben voluti, la comunità in loro riconosceva due persone di cui potersi fidare e loro ricambiavano con gentilezza e disponibilità. Mancava un figlio alla coppia, ma loro non ne sentivano la mancanza. Si bastavano, il loro amore riusciva a tenerli insieme; ogni problema era affrontato parlandone e trovando un punto comune o un’idea capace di mettere d’accordo entrambi. Con il tempo avevano imparato a riconoscere il momento in cui fare un passo indietro, quando era il caso di disinnescare una bomba pronta ad esplodere. Non c’era una regola fissa, non era sempre uno dei due a vincere la battaglia, perché non c’erano battaglie da vincere, ma problemi da risolvere, e loro riuscivano a farlo insieme. Una domenica mattina i due ragazzi erano in casa a godersi semplici attimi di tranquillità. Fabio, sprofondato su una vecchia sedia a dondolo riparata da lui stesso, era concentrato a leggere una raccolta di poesie. Anna, comoda sulla sua poltrona, con le gambe piegate su se stesse, aveva iniziato da poco il ricamo di un tessuto per una cliente. I due troni erano stati sistemati ai lati della finestra sul mare, questa strategia gli permetteva di guardare l’orizzonte e nello stesso tempo avere il viso dell’altro a pochi centimetri. Anche in casa sentivano la necessità di essere vicini. Anna smise di lavorare, poggiò le sue cose sulle gambe e sollevò il viso. Guardò in direzione delle onde ingrossate dal vento freddo proveniente da nord, un leggero sibilo era intonato dal telaio poco ermetico della finestra. Era assorta in così tanti pensieri da poterci navigare, senza paura di naufragare nelle loro acque, ma aveva l’espressione serena. Fabio si accorse della mente occupata della moglie “Anna, che succede?” Nello stesso momento in cui il suono dell’ultima lettera di quelle parole svanì, vide una lacrima iniziare il breve viaggio verso il pavimento, “Amore, sono lacrime di gioia. Sono incinta” replicò tenendo la voce bassa, come se non volesse disturbare il sonno di un immaginario vicino. Fabio, senza dire nulla, scoppiò in lacrime e si gettò ai piedi della moglie, poggiò la testa sul suo grembo e si lasciò accarezzare per un tempo indefinito. La notizia dell’arrivo di un erede era il completamento della loro felicità. Lo avevano desiderato pur senza rincorrerlo ad ogni costo, e il destino anche questa volta li aveva accontentati. Non si capacitavano del perché la vita fosse stata così benevola con loro, e loro per cercare di ripagarla facevano di tutto per aiutare concretamente chi avesse avuto bisogno di una mano.
I mesi volarono via, finché il destino non si burlò della giovane coppia, e lo fece, consegnandogli il figlio un giovedì, il 14 agosto 1975.
Nello stesso giorno in cui si conobbero. Nello stesso giorno in cui decisero di sposarsi. La forza che travalica la volontà umana usò l’artificio della coincidenza per rimarcare la sua presenza. Quando la vita vuole dirci che tutto è possibile usa le coincidenze; sono il filo che unisce la speranza con la realtà. Marco fu il nome scelto dalla coppia per il bambino che avrebbe portato dentro di sé parti di entrambi.
14 agosto 2020.
Sono passati quarantacinque anni dalla nascita di Marco.
“Prima di andare a lavoro passo a vedere come sta papà, l’ho sentito strano a telefono.” disse Marco rivolgendosi alla moglie. “Come vuoi. Ci vediamo a cena.” Arrivò nella casa dei genitori in pochi minuti. Lasciata la macchina in un vicino parcheggio incustodito, varcò la soglia usando le chiavi che aveva sempre tenuto con sé. Negli anni quella casa era stata ristrutturata, allargata, modificata, ma la finestra che si affaccia sul mare non è stata mai toccata, così come non sono mai state spostate le due poltrone sotto di lei. Marco ispezionò l’abitazione in pochi minuti, ma non trovò nessuno. Si avvicinò alla finestra, l’aprì, ed entrò il vento rinfrescato dall’abbraccio avuto con l’acqua del mare. Oltre il vetro, oltre i pochi metri che lo separavano dalla spiaggia era stato costruito un muretto, alto poche decine di centimetri a protezione delle auto. Era usato da tutti come panchina su cui lasciarsi andare, mentre si è avvolti dai propri pensieri stuzzicati dal film muto della natura. Lì, su quel muretto, Marco vide il padre. Fabio sedeva con le gambe penzolanti, rivolgendo il viso alla sua destra, abbastanza di lato da lasciar scorgere il sorriso sereno e gli occhi pieni d’amore. Amore mai mutato o svanito in cinquantacinque anni dal primo incontro con Anna. Amore capace di accompagnarli, tenendoli per mano, lungo il sentiero impervio delle giornate difficili e a volte monotone. “Anna, guarda il nostro mare. In tutti questi anni non è cambiato per niente: è solo diventato più bello” disse Fabio, e aggiunse “ti amo”, mentre guardava Anna. Lei, con i suoi occhi grandi sempre vivi, il viso felice, la lunga treccia a cavallo della spalla destra, vestita del suo abito più bello, gli sorrideva dalla foto in bianco e nero incastonata nella vecchia cornice rossa, tenuta stretta al fianco e poggiata sul piano del muretto. Ascoltava il racconto dei ricordi passati insieme.
Il destino giocò la sua ultima partita l’anno precedente. Sempre nella stessa data. Il 14 agosto 2019. Doveva essere l’ennesima giornata di festa, come lo era stata per tanti anni, sfruttando la benevolenza della coincidenza o l’influsso positivo del destino. Era felicità pura per loro, racchiudere tante gioie in un giorno unico, amplificarla. “Una potenza di potenza” per esprimerla in termini matematici. Ma il destino, cinico, quella volta decise di riprendersi indietro tutti i regali fatti fino ad allora. Lo fece nel modo peggiore. Mandò la morte sulla terra a prendere Anna, seduta sulla sua poltrona: fissava il mare.
Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia “Le parole in un click” acquistabile qui ed edito dalla casa editrice Incipit23.
Un uomo discreto dal sorriso sempre in primo piano, mai ostentato, ma sincero. Un sorriso che parte dal cuore: la natura ha deciso così, deve essere naturale, spontaneo, donare e infondere dolcezza. Occhi nerissimi, quasi impenetrabili ad uno sguardo superficiale, messi lì non per respingere, ma per regalare la possibilità di guardarsi dentro, come trovarsi davanti alla propria anima riflessa su uno specchio. Il viso, senza spigoli o angoli duri, disegnato per infondere fiducia. Grandi mani capaci di compiere dolci movimenti, così come il cuore, immenso. Un uomo non troppo alto, scelta precisa quella di madre natura, con uno scopo rigoroso: non avrebbe dovuto guardare nessuno dall’alto in basso. La sua missione in questa vita sarebbe stata ascoltare tutti, indistintamente. Si chiama Gino.
Era un bimbo come tanti altri, nato in una terra incapace di regalare lavoro. Una terra dura ma con la qualità di formare, insegnare come rimboccarsi le maniche, con il compito di far emergere la nostra parte nascosta, far esaltare i propri talenti. “Mamma, papà ho deciso, non posso rimanere qui, non ho futuro. Vado a cercare la mia strada altrove;”
“Gino, hai ragione, parti e afferra la felicità ovunque essa sia.”
Gino si ritrova a metà degli anni ottanta in una piccola provincia del nord, totalmente sconosciuta. Terra affacciata su uno specchio d’acqua, patria di grandi nomi del passato. Con la sua valigia piena di sogni e speranze, si catapulta in una nuova vita da costruire facendo leva sui suoi talenti: ascoltare le persone, essere vicino alla gente, avere sempre la parola giusta o il silenzio giusto da regalare. Non aveva altra scelta se non rischiare tutto in un lavoro a contatto con le persone.
“Apro un bar a Como.”
Protette dalle mura di cinta della città , si districano un manipolo di piccole viuzze a formare un reticolo ordinato di costruzioni in pietra. Tra di esse si distinguono sia i grandi palazzi delle famiglie nobili sia, al pian terreno, le piccole botteghe dei laboriosi artigiani con la testa sempre bassa, impegnati senza sosta nel loro incessante lavoro quotidiano. Quegli instancabili lavoratori dovranno pur fare colazione, mangiare, incontrare i clienti, concedersi un momento di pausa a fine giornata. Quella gente ha bisogno di Gino e del suo nuovo Lario Bar. Saper ascoltare la gente: il suo talento innato – oltre alla capacità di essere un grande professionista nel lavoro che si è inventato – viene immediatamente notato, diventando, in breve, punto di riferimento del centro città . Le persone si fidano di lui. I clienti, inizialmente sporadici, si trasformano in breve tempo in abituali. L’anziano, in pensione, occupa ogni giorno il solito tavolino in strada. Il gruppo di professionisti, la signora di passaggio, la comitiva di ragazzini cessano di essere clienti e diventano amici di Gino. Tra di loro c’è un piccolo gruppo di adolescenti. Le comitive dei ragazzi, si sa, non hanno mai un posto dove chiacchierare, decidere cosa fare o ingannare il tempo. La scelta obbligata di quei quattro scavezzacollo è quella di eleggere il Lario Bar come casa comune, il salotto dello zio sempre disponibile ad accontentare i nipoti. Tutti i giorni il gruppetto ha la sicurezza di trovarsi lì, senza accordi preliminari, solo per vedersi, solo per il piacere di stare insieme o scambiarsi una pacca sulla spalla. Con il tempo il gruppo si allarga, fa proseliti, diventando una splendida compagnia di quattordici ragazzi. Gino quei ragazzi li vede crescere dentro il suo bar, li conforta nei momenti difficili, li sostiene, esulta con loro per i traguardi raggiunti.
Gli anni passano, il Lario bar si trasforma in Como Bar e i quattordici ormai cresciuti sono diventati professionisti affermati nella vita. Ognuno di loro ha una famiglia da sostenere e coccolare, delle responsabilità da non ignorare, delle incombenze da non dimenticare, ma nonostante questo hanno un punto fermo: a fine giornata qualsiasi cosa succeda si abbracciano da Gino, nel loro salotto, quello scelto tanti anni prima, nell’angolo a destra in fondo alla sala. È il loro modo per dirsi: “ragazzi siamo qui, sempre insieme, nonostante tutto, ognuno per l’altro”. Purtroppo il tempo passa anche per Gino, sente la stanchezza di quell’immensa massa di anni passati dietro al bancone. Le mani, una volta veloci e attente, iniziano a subire gli acciacchi del troppo freddo subito. Nella sua testa comincia a sgomitare quella vocina flebile che gli ripete: “è ora di godersi la vita, hai lavorato abbastanza, molla tutto, la pensione è dietro l’angolo, devi solo stringerla con le mani.” Si lascia convincere. Una sera, mentre gli unici clienti sono il gruppo dei quattordici intenti a scherzare fra loro, Gino fa deflagrare una bomba inaspettata: “Ragazzi, devo dirvelo, non ce la faccio più, sono stanco vendo il bar e mi godo la pensione”. I volti di tutti all’improvviso sono stati avvolti da una cortina di tristezza mista a incredulità . È stato come ricevere un pugno al centro dello stomaco, sbam, senza preavviso. Pensare che un giorno il bar potesse chiudere non era mai stato preso in considerazione dal gruppo di amici; c’era la certezza, qualunque cambiamento fosse arrivato, di trovare Gino dietro il bancone a sostenerli o supportarli. Sono spiazzati, la pietra miliare di tutti quegli anni vacilla, non sanno cosa fare e nell’incertezza fanno l’unica cosa giusta: aspettano. Lasciano correre le lancette dell’orologio, hanno bisogno di plasmare quella notizia con delle forme meno spaventose. Inconsciamente sono consapevoli di non poter agire d’istinto. Il gruppo continua a incontrarsi e il bar è ancora in vendita. Hanno la soluzione a portata di mano ma non la vedono, ma l’idea di perdere la quotidianità con quel vecchio zio che li ha visti crescere li indirizza sulla giusta via. “Ragazzi come faremo senza il Como Bar?” “Impossibile trovarne un altro, adesso i locali sono tutti pieni di ragazzini preoccupati solo del loro cellulare e dello Spritz.”
“Non posso credere di dover rinunciare al nostro ritrovo.” Madre natura non vuole che i fulmini avvisino dove cadere e, allo stesso modo, l’idea capace di risolvere tutti i problemi, in un solo colpo, giunge improvvisa. “Compriamo noi il Como Bar.”
“Ma stai scherzando? Abbiamo già un lavoro, le famiglie, gli impegni, sarebbe impossibile mandare avanti il locale!”
“Non avete capito, noi ci limitiamo a comprarlo, siamo quattordici. Ognuno di noi investe un piccolo gruzzolo, assumiamo qualcuno e lo paghiamo con gli incassi del bar. In questo modo facciamo un regalo a Gino ed uno a noi.” Quell’idea, nata per caso come uno scontro con una farfalla nel mezzo di un bosco, è diventata realtà . Oggi il Como Bar è di proprietà dei ragazzi cresciuti in mezzo a quei tavoli. Loro continuano a vedersi ogni sera e Gino è sempre dietro al bancone. Nonostante la pensione. Nonostante gli acciacchi. Nonostante la sua creatura non sia più sua. Ma i suoi occhi continuano a specchiare i cuori degli amici del Como Bar.
Il sole inizia ad affacciarsi sui tetti delle case: bussa ai vetri delle finestre rivolte nella sua direzione. Una miriade di arancioni vengono stagliati in ogni angolo visibile, predominano sugli altri, mentre lottano con i celesti che a breve vinceranno la guerra. Qualche nuvola sparsa qua e là ha il compito di filtrarne le sfumature dando volume ai colori, regalandogli forma e consistenza riconoscibile, rendendoli vivi come se si potessero toccare con mano. Inizia a sbocciare il tepore rassicurante della primavera, mentre l’inverno sembra sia andato definitivamente in soffitta, decidendo autonomamente di rinchiudersi nel baule: sarà la sua casa per il prossimo semestre. È il periodo dell’anno in cui tutto riprende vita. Così come gli atleti si preparano davanti ai blocchi di partenza in attesa dello sparo d’inizio, così la natura esplode soffiando nei polmoni delle sue creature. Dagli alberi ai fiori, dagli insetti agli animali, tutti svegli dopo il lungo riposo dovuto al freddo invernale che acquieta e cristallizza ogni essere. Anche gli uomini attendono con ansia, quasi trepidanti il momento di ripartire, sognano la primavera. È il momento dei nuovi propositi, “dei farò”, dei “mai più”. Una storia ripetuta ogni anno, sempre uguale, poco importa se le promesse fatte non mutano, importa solo rinnovarle o farne di nuove, perché la primavera è speranza, è progetto, è futuro. Noi umani abbiamo la necessità di avere degli obiettivi, ci rassicurano, ed usiamo questi momenti arbitrari ma rappresentativi per tutti, per archiviare ciò che può essere andato storto; un modo per allinearsi al ciclo periodico e rasserenante della natura.
Poco prima di questo avvio, ce ne stavamo stretti nelle coperte di lana sui divani all’interno delle nostre case. L’inverno, da vero burlone, gettava pezzi di primavera tra le giornate gelide di un noiosissimo febbraio; profumi conosciuti solleticavano il naso mentre la gioia di vivere degli insetti rompeva il silenzio dei nuvoloni grigi. Da lontano, come un’ouverture eseguita a sipario chiuso, abbiamo avvertito senza riconoscerle, le prime note di un’opera mai ascoltata. Sono state note talmente flebili e sottotono da essere ignorate, troppo distanti per essere viste, troppo stonate per essere ascoltate con l’attenzione che avrebbero meritato. Il maestro J. M. Ravel, nel suo Bolero, fa iniziare due fiati e come una valanga aggiunge ad ogni ripetizione altri strumenti al tema, e allo stesso modo lo tsunami della novità ha travolto le nostre vite iniziando da piccoli buffetti, ma ha aggiunto pugni sempre più forti, tutti nello stomaco, al centro. Essendo una novità è stata mascherata con un nome regale, degna di un sovrano e di quello che lo identifica come tale: la corona; a questa novità è stato dato il nome di “coronavirus”. Chissà perché gli scienziati si divertono a dare nomi rassicuranti a qualcosa che può solo spargere paura, infondere incertezze o togliere la vita. Bah. Ciò che ci caratterizza è stato spazzato via. Prima della novità, c’era il piacere di concedere ad un estraneo totale fiducia, gratuitamente, perché c’è sempre tempo per perderla, mentre ora siamo stati costretti a diffidare di tutti. Cerchiamo nell’altro i segni del pericolo o di quello che può farci male. Analizziamo come detective chi è davanti a noi alla ricerca di indizi compromettenti. Chi abbiamo di fronte, rigorosamente ad almeno un metro, si è trasformato da persona da conoscere in persona pronta a colpirci, farci soffrire, perché trovare qualcuno su cui puntare il dito è rassicurante, ci toglie il peso dall’aver sbagliato. Ci è stato chiesto di allontanarci con i corpi per non ammalarli, ma lo abbiamo scambiato con allontaniamo, anche e soprattutto, i sentimenti. Perché è inevitabile, cercando di vivere dentro una campana di vetro, non possiamo intrecciare nuove emozioni o relazioni, né risolvere eventuali conflitti: saranno sommate alle preoccupazioni delle incertezze. Abbiamo dovuto indossare le mascherine per non aprire la porta al virus, quello con la corona, ma abbiamo chiuso la porta ai sorrisi. Un sorriso era un semplice gesto, ma aveva la forza di dire “Sono una persona buona e lo sei anche tu, ed incontrarti mi ha regalato un po’ di calore”. Ora, invece, sembriamo dei manichini, inespressivi a causa dello scudo sul viso e così pieni di timore da abbassare gli occhi nell’incrociarne altri, come se fossimo gli autori di chissà quale delitto. Siamo diventati tutti potenziali omicidi. Abbiamo perso la possibilità di riconoscere una risata o un pianto, un momento di rabbia da uno di paura; questo virus che di regale non ha nulla, ci ha rubato l’empatia. La provvista personale era già limitata, ma ora è stata azzerata del tutto. Questo maledetto essere invisibile ci ha tolto la possibilità di donare un abbraccio, per gli scienziati occupati a tenere in vita i corpi è quasi peggio del virus stesso. Ma un abbraccio è vita, è calore, è supporto, è amore, ed i corpi rimangono vivi perché possono nutrirsi anche di questo cibo che non deve essere ingerito, ma nutre a volte, più di un pasto abbondante. Ci è stato impedito di dare un bacio. Il gesto universale capace di rappresentare l’amore. Come lo spieghiamo adesso ai bambini, quando si faranno male, che non potremo curarli con la medicina più potente di tutti? E dopo tutto questo, e nonostante questo, un corpo può anche perdere la battaglia contro il virus e qui si compirà l’ultima tragedia: l’impossibilità di salutare per l’ultima volta quella persona. Cosa può esserci di più crudele? Come si può non farsi aggredire dal vuoto estremo del dolore dell’anima? Stiamo cercando a tutti i costi di tenere in vita i corpi, ma questo bastardo riesce a colpire anche chi non infetta, ammalando le anime dei rimasti sani costringendole a rango inferiore. Le stiamo trattando come abbiamo fatto con i bambini: con l’illusione di difenderli li abbiamo chiusi in casa, senza chiedergli se stessero soffrendo. Chissà se tutto questo è vivere.
Dall’interno della stanza, appena illuminata dai pochi raggi di sole rimasti, ammira, seduta sulla vecchia poltrona, le ombre dei rami spogli, riflessi sulla terra riscaldata dall’ultima giornata autunnale. La mente, libera, danza sulle punte accompagnata dalle note librate in aria – suonate dal pianoforte dei ricordi. – Il corpo, prigioniero di se stesso, guarda l’anima fuggita oltre il vetro. Siede sul davanzale, con le braccia attorno alle gambe. Attende. Un altro giorno è passato. Un altro tramonto sta per lasciare il posto ad una nuova oscurità . Un altro pezzo di speranza ha abbandonato il tavolo, apparecchiato per due, rimasto anche oggi vuoto.
Questo racconto è stato analizzato dalla scrittrice Maggie van der Toorn che lo ha valutato così:
La fiamma del camino, ardente, riscaldava con un accogliente tepore la stanza. I colori caldi, provenienti dalla vicina fonte di calore naturale, illuminavano l’ambiente tinteggiandolo con toni sempre differenti. Lo scoppiettio delle braci spezzava, con delicatezza, il silenzio calato in quell’istante. Un dipinto in continua evoluzione. Noi sprofondati tra le braccia morbide del divano con in mano un bicchiere di buon vino. Nel mezzo di questa cornice, la solita storia raccontata più e più volte, ma sempre piacevole da ascoltare. I genitori amano novellare alcuni aneddoti più di altri, forse perché rappresentano qualcosa di importante o forse perché quella storia, oltre a riviverla con la mente, la rivivono con il cuore. “Sapete che Emanuela non doveva chiamarsi Emanuela?” “No papà questa storia non l’abbiamo mai sentita! – Oggi. -“ “Prima che vostra sorella nascesse, con la mamma avevamo deciso di darle un altro nome. Il giorno che venne alla luce dovevo andare a registrare la nascita dal funzionario comunale, e passai per salutare.” “Dai papà , continua ti prego, si fa avvincente la cosa!” “Sei un cretino. Dicevo; nel salutare ho avvisato la mamma che sarei andato dal funzionario a registrare Emanuela, chiedendole, confermiamo Alessandra come nome?” La risposta fu “ah non ti preoccupare, ho già fatto io, l’ho chiamata Emanuela.” Ecco; Emanuela ha iniziato la sua vita così: con il brivido di essere un’altra persona. Non so se il nome influenza davvero l’essere umano, ma a me piace così com’è, quindi sono contento sia arrivata da noi con il nome di Emanuela. Questi sono i ricordi aggrappati al cuore dei miei genitori, mentre se io avvolgo indietro la pellicola in cui sono impressi i miei, il primo fotogramma è quello di un batuffolo bianco pieno zeppo di puntini rossi. E’ un’immagine nitida, forse amplificata dall’avere riposta in qualche cassetto impolverato, una fotografia di quel momento, di quei giorni. Una bimba paffutella, stesa nel suo lettino, alle prese con il morbillo. Il viso ed il corpicino coperto da un naturale vestitino a pois. Gli occhioni, tinti di un verde impenetrabile sempre spalancati, sono il suo biglietto da visita insieme al sorriso in primo piano. Mostrano la gioia di essere al mondo e regalano, incondizionatamente, fiducia a chi ha la fortuna di percorrere con lei qualche passo di questa vita. Io ho percorso un tratto di strada breve prima di essere investito dalla nascita di Emanuela. Dopo essermi goduto la comodità , i privilegi, dell’essere figlio unico, all’improvviso mi sono visto recapitare a domicilio un altro essere umano. “Chissà perché mamma e papà hanno portato a casa un’altra bambina, boh!” Così dopo aver fatto scorta di coccole e attenzioni per qualche anno, mi sono ritrovato a dover condividere tutto con Emanuela. In quegli anni vivevamo in una casa talmente piccina da non avere una nostra cameretta. Condividevamo ogni angolo, ogni sguardo, ogni respiro. In pochissimo tempo siamo diventati una coppia di fatto. Siamo cresciuti insieme guardandoci le spalle. Ci siamo affezionati, l’un l’altro, immediatamente. Le litigate, immancabili ogni giorno, erano il filo conduttore del nostro amore. Emanuela cresceva, la sua proverbiale attenzione ai particolari si acuiva e sparigliarle le carte in tavola non la faceva mai arrabbiare. Lei è così: nascosta dietro alla figura quasi austera, impenetrabile, sempre perfetta, si nasconde un cuore d’oro incapace di mostrare rancore. Emanuela non parla, dimostra. Dimostra quotidianamente il suo valore, così come dimostra i sentimenti senza sbandierarli. Non lancia parole al vento. Mostra cosa ha dentro e cosa puoi perdere se rinunci a lei, senza illusioni. Emanuela è la persona che pur di farti felice, se può, ti toglie un pezzo di infelicità per farsene carico. Emanuela dona. Dona ciò che possiede nelle mani o ciò che fa parte di se stessa. Oggi è il compleanno di Emanuela, e ne approfitta per aggiungere un pezzo di esperienza alla pila riposta sempre al suo fianco, perché lei fa così: conserva tutto dentro il cuore adagiandolo su un trono morbido per farlo sentire protetto, al sicuro, a costo di dover usare il suo corpo per difenderlo. Ma oggi è il giorno di riscuotere. Oggi le persone importanti – per te – hanno la possibilità di allargare le braccia, e per una volta, lasciarti appoggiare la testa sulle loro spalle sussurrandoti “oggi spetta a noi pensare a te.” Io non potrò esserci, e spero che la vita decida finalmente di donarti qualcosa capace di farti urlare: “GRAZIE.” Buon compleanno Ema, ti voglio un gran bene.
Nel sogno ricordo di aver sognato la stessa cosa la notte prima e molte altre notti degli ultimi anni, e seppe che l’immagine gli si era cancellata dalla memoria quando si era svegliato, perché quel sogno ricorrente aveva la virtù di non poter essere ricordato se non dentro il sogno stesso.
Cent’anni di solitudine
Così aveva finito per pensare a lui come non si era mai immaginata che si potesse pensare a qualcuno, presagendolo dove non era, desiderandolo dove non poteva essere, svegliandosi d’improvviso con la sensazione fisica che lui la contemplasse nel buio mentre dormiva.
L’amore ai tempi del colera
Con lei Florentino Ariza aveva imparato quello che aveva già sofferto parecchie volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna. Solitario tra la folla del molo, aveva detto fra sè in un accesso di rabbia: “il cuore ha più stanze di un casino.”
L’amore ai tempi del colera
Se sapessi che questi sono gli ultimi minuti che ti vedo, direi “ti amo” e non darei scioccamente per scontato che già lo sai.
Stando al centro della piazza e voltando il viso in ogni direzione, si riesce a spedire lo sguardo talmente lontano, da non esserci abituati. È una strana sensazione, disorienta. Un posto solitamente affollato, in cui ci si scontra ad ogni passo con gli occhi di uno sconosciuto, ora è totalmente privo di parole. Il silenzio è così rumoroso da non riuscire a restare immobile più di qualche minuto. Nulla che possa dare respiro ad un angolo abituato ad essere vita. Stiamo vivendo un periodo strano, quasi alieno. A causa di un’epidemia tra gli uomini, capace di colpire sia il corpo, falciandolo, sia il buon umore e la voglia di vivere, tutto si è svuotato. Il vuoto creato è talmente cupo da sentire l’eco di se stesso. La mente, guerriera contro questo esercito invisibile, rimescola i ricordi degli anni passati. Ricordi nitidi nei giorni in cui questa stessa piazza era piena zeppa di risate. Questo perché, era il periodo in cui i bambini ricoprivano ogni centimetro di suolo con i coriandoli, le stelle filanti e grosse risate lanciate senza remore in ogni angolo. Si divertivano prendendosi gioco di loro e tra loro. Suoni amplificati e colori sgargianti erano il tavolo su cui bandire il pranzo di quei giorni. Era il periodo in cui indossare una maschera, senza destare sospetti, era consentito. Perfino il cielo si mascherava vestendosi con i suoi abiti più belli, azzurri di un azzurro accecante, ma burlandosi di tutti ripuliva la terra con una brezza gelida. Oppure si nascondeva dietro infiniti batuffoli di cotone bianco, tali da riempire lo spazio immenso sopra le nostre teste. La luce proveniente dal sole, colorata da un caleidoscopio di minuscoli riflessi, riscaldava i cuccioli di uomo troppo impegnati a giocare, per farsi avvolgere dal freddo. I bambini attendono un intero anno per essere qualcun’altro. Sono incapaci, loro, di nascondere il proprio essere. L’essere bambino è un pregio che si perde durante la cavalcata della vita. L’essere bambino regala la necessità di mostrarsi sempre per come si è davvero, nel bene e nel male. Mostrare ogni singola emozione: rabbia, frustrazione, felicità , amore o qualunque essa sia, senza paura di essere giudicati, rappresenta l’essere dell’essere fanciulli. Poi si cresce. Si diventa adulti e si impara l’arte di indossare una maschera ogni giorno – sempre diversa. – Ogni mattina si sceglie una maschera, così come si sceglie un vestito. Davanti allo specchio cerchiamo i cambiamenti avvenuti nella notte. I nuovi solchi nati sul viso, come un aratro fa con la terra, modellano le pieghe vecchie e nuove. Da lì trapelano i sentimenti che ci invaderanno in quella giornata; così li copriamo. Ci omologhiamo a quello a cui vogliamo anelare, piuttosto che mostrare una piccola parte della nostra anima. Decidiamo razionalmente chi dobbiamo essere quel giorno. Una finzione continua con noi e gli altri. È l’indossare continuamente queste maschere il motivo per cui nasce l’esigenza o la necessità degli adulti, di voler di tanto in tanto rimanere soli. Amici miei avete mai visto un bambino desiderare di voler restare solo? No, assolutamente. Al contrario, i bambini temono l’essere abbandonati, più di ogni altra cosa al mondo. Temono di essere privati del mantello sicuro di un paio d’occhi adulti. Mentre noi adulti abbiamo, sentiamo, la necessità di purificarci, scrollandoci dalle stanche spalle tutte le menzogne raccontate nei giorni precedenti. Così ci chiudiamo. In silenzio, soli, ad essere ciò che siamo realmente. A gettare via dalle spalle lo zaino colmo di maschere pronte per ogni evenienza. Colmo di finzione. Abbracciamo questa forma di purificazione – l’isolamento – per avere la possibilità di riprendere, più forti di prima, la giornata successiva con una nuova maschera. Questa convinzione è talmente radicata in noi, da non essere più in grado di riconoscere qualcuno deciso a mostrare solo se stesso. Lo attacchiamo – spaventa. – Spaventa trovarsi a pochi centimetri con qualcosa di sconosciuto. Un essere umano vestito esclusivamente del suo io. Una novità che non ci appartiene. Davanti a tutto questo, l’unica via di fuga è quella di combatterlo, scacciandolo come un appestato. Senza immaginare di aver allontanato proprio ciò che cerchiamo da sempre: qualcuno che è solo se stesso.
Ciao 2019, è arrivato il momento di parlarti. Ormai è fatta, siamo alla fine, sei passato, finito, estinto. Ci siamo. La tua fine porta inevitabilmente a fare bilanci, consuntivi, tirare le somme. La prima cosa da dirti è: Vaffanculo (se mi legge qualcuno perdonate il francesismo schietto), ma nonostante il dolce termine, devo anche ringraziarlo (il 2019), quindi: grazie. Sono vivi, nelle mie orecchie, i frastuoni dei tuoi primi vagiti. Come i neonati, appena arrivato hai fatto un gran macello, hai urlato, hai pianto, ti sei svegliato all’improvviso per mangiare, ma nonostante questo eri bello da guardare e da tenere tra le braccia. Facevi quasi tenerezza. I tuoi progressi erano lenti, ma continui, ero quasi orgoglioso di te. Mi dicevo: “guarda come cresce bene, quante soddisfazioni mi sta dando, sarà davvero bello e forte una volta cresciuto.” Certo, come tutti i bambini non eri esente da capricci, marachelle, scatti d’ira, motivi per farmi arrabbiare, ma nulla di irrimediabile, mi facevi un sorriso, mi strappavi un bacino, mi abbracciavi e tutto si sistemava. Abbiamo litigato tanto, ma il giorno dopo eravamo più coesi e uniti di prima. Mi facevo forte della tua crescita, del tuo essere in salute, del tuo saper dare tanto, del tuo essere generoso, non ti montare la testa i difetti erano pari ai pregi. Poi finalmente hai superato il periodo critico, hai superato l’adolescenza, il tuo carattere si è mitigato, sembrava avessi raggiunto l’equilibrio. Sei diventato bello da perdere il fiato, forte come pochi, propositivo, pieno di energia, vitalità e solarità . “Ohh finalmente è adulto, ha la forza per andare avanti da solo, non ha più bisogno di me.” Con queste premesse non potevo non fidarmi, sembrava avessi capito cosa dover fare e come farlo e mi sono fidato di te. Continuavi a pretendere la tua libertà : “sono un anno diverso dagli altri, quello migliore, non ti ho deluso fino ad adesso, non posso sbagliare.” Quando ti chiedono così ardentemente fiducia non puoi non concederla. E’ necessario dare quella libertà , aprire le proprie dita e liberare la manina per vedere camminare sulle proprie gambe questo piccolo diventato grande. Forse quello è stato il mio errore, fidarmi. Lì il patatrac, dopo qualche bel passo certo, solido, ben assestato: “sbam…” sei caduto con il viso a terra. È bastata qualche foglia secca caduta per caso sotto i tuoi piedi per farti perdere l’equilibrio, vacillare, abbandonare quella sicurezza che tanto ostentavi, decantavi e urlavi. Da un guerriero pieno di vigore e forza ti sei trasformato nell’ultimo degli agnellini privi di coraggio, pronto a scappare davanti ai problemi. Sei invecchiato di colpo, le rughe hanno preso immediatamente il posto della tua pelle prima liscia e levigata. Il tuo animo docile si è trasformato in irrequieto, eri ormai irriconoscibile, i fasti dei tuoi momenti migliori quasi dimenticati. Hai perso la memoria, il correre senza incertezze ha lasciato il posto a passi barcollanti. Stevenson sarebbe stato orgoglioso di leggere in te e in quello in cui ti sei trasformato la trama del suo romanzo più conosciuto: “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde.” Nulla era più rimediabile, ormai il tuo essere invecchiato ha consumato ogni parte di te. Oggi è il giorno del tuo ultimo respiro. Oggi muori, passerai a miglior vita, quella esclusiva dei ricordi. Un nuovo anno sta per prendere il tuo posto, stai per essere sostituito – non dimenticato. – 2019 perché hai fatto questa scelta? Perché hai aspettato la fine dei tuoi giorni per rivelarti? Non potevi semplicemente non strafare nei tuoi giorni migliori lasciando un po’ di respiro anche agli ultimi momenti di questa tua vita? Come dici: “per gustare l’euforia dell’orizzonte più bello è necessario correre il rischio di salire sul punto più alto della montagna.” Come darti torto. Ormai è fatta, il tuo sostituto in questa vita terrena è arrivato a darti il cambio. Non so quali intenzioni possa avere e cosa nasconde in quella sacca nera portata sulle spalle, lo scoprirò giorno dopo giorno, ma tu, caro mio 2019 un segno, un solco, un’impronta, una cicatrice da ricordare l’hai lasciata e sarà lì sempre in primo piano a urlare: “un anno folle dalla bellezza inaudita ma dal carattere tempestoso è passato sopra il mio essere.” Ciao 2019.