Natalia

Seduto sul lato passeggero perché ero troppo giovane per guidare, ma troppo grande per essere definito adolescente.
I finestrini della macchina aperti, il loro compito era rinfrescare il caldo giunto da qualche giorno su questo pezzo di terra chiamato casa.
La mia autista era una donna convinta di aver terminato parte dei suoi impegni con la natura.
Si parlava con serenità  di argomenti poco arguti, di quotidianità , di nulla, si occupava il tempo.
Non so cosa sia passato nella mente della mia compagna di viaggio, non so perché abbia scelto quel momento preciso, così come non so perché io lo abbia stampato in testa come un filmato appena visto, ma all’improvviso e con un tono della voce trasformatosi immediatamente serio:
“Michele sono incinta”
“mamma cosa hai detto?”
“aspetto un altro figlio o figlia.”
Eravamo a circa metà  anno nel momento in cui la notizia è diventata “ufficiale” ed ha autonomamente fatto il suo percorso.
Così come ha fatto il suo percorso anche la nuova vita portata nel grembo di una donna decisa a volersi rimettere in gioco, e ripercorrere strade viste in precedenza già  due volte.
Il tempo scorre.
Fa freddo, l’inverno ha da poco bussato alla porta dell’emisfero boreale, sono le 07,35 di martedì 27 dicembre 1994, squilla il vecchio telefono a disco all’interno di una casa con una famiglia in attesa di quella notizia:
“pronto chi parla?”
“buongiorno è l’ospedale FateBeneAFarliNascereQuiPerchèSiamoIPiùBravi, lei è il Signor Proto?”
“si sono io;”
“sua figlia è nata l’aspettiamo;”
“arriviamo”.
Questa è stata la venuta al mondo di Natalia, mia sorella, la più piccola, la cocca della famiglia, la viziata per definizione, forse.
Natalia è arrivata come un fulmine a ciel sereno e allo stesso modo si è imposta nelle vite di tutti noi.
Ma il destino è beffardo, si sa, ha aspettato che mi affezionassi a questo scricciolo pieno di energia, capace di mettere di buon umore tutti con versi senza senso degni del miglior grammelot d’annata, per decidere poi di allontanarmi da lei.
Il destino ha provato, forse, a testare la capacità  di continuare ad amare anche da lontano.
Il destino ha cercato di testare se fosse possibile per due persone con 17 anni di differenza, distanti 1200 km, senza la possibilità  di avere una quotidianità , se riuscissero a legare, a creare un rapporto stretto, a crescere insieme nonostante tutto, a parlarsi pur essendo di generazioni differenti.
Ci ha provato; ci hai provato destino ma senza riuscirci.
Siamo cresciuti tenendoci per mano pur percorrendo strade in direzioni opposte, vite differenti, tetti diversi a coprirci.
Siamo cresciuti vicino stando lontano, ma oggi siamo due amici che si amano come fratelli.
Litighiamo come una coppia con cento anni di matrimonio alle spalle, ma incapaci di immaginare una vita senza la presenza dell’altro.
Siamo due persone con la vittoria in tasca sul tentativo fatto dal destino di non farci mai incontrare davvero.
Oggi è il 27 dicembre giorno del suo compleanno.
Oggi Natalia è una giovane donna.
E’ diventata grande, cammina con certezza sulla strada della vita, sgomitando in mezzo agli altri per mostrare chi è diventata e quali talenti madre natura le ha messo in mano.
Natalia avrei potuto farti un regalo, ma così risparmio.
Buon compleanno e goditi questo viaggio detto vita.
Ti voglio bene.

Michele

Un giorno come un altro

Trovarsi in luoghi in cui si è costretti a stare forzatamente vicini non ha sempre accezioni negative.
Gruppi inamovibili di sedili uno a fianco all’altro creano un microcosmo capace di rappresentare degnamente una comunità  eterogenea.
Prestando un po’ di attenzione si può giocare a riconoscere chi si ha davanti, chi è, cosa fa o cosa sta pensando.
E’ un gioco divertente anche se è un’intrusione non richiesta da nessuno.
Il personaggio più facile da identificare è il signore alla mia estremità  sinistra.
Il professionista sempre in giro mentre torna dalla famiglia.
Veste con sicurezza la sua divisa d’ordinanza, giacca sportiva portata sul jeans blu scuro, sposato, si nota la fede portata sull’anulare sinistro, padre di due figlie, rivelatore lo sfondo del telefono mentre legge l’Economist.
I suoi pensieri urlano ad alta voce:
“in questi giorni di festa dovremmo fatturare di più”,
ho intravisto un report delle scorte di magazzino proiettato sul portatile lasciato in bella vista sul tavolino davanti a lui, beni conservati in picchiata quindi fatture in più da monetizzare.
Forse è questo il motivo del sorriso spuntato sul viso, come un fungo nato dopo le piogge di settembre, mentre studia il grafico.
Nella fila destra che anticipa la mia, il posto è stato assegnato ad una ragazza.
E’ un posto strategico per chi come me non riesce a fare a meno di guardare nella vita degli sconosciuti capitati per caso sotto il mio naso; posso osservare tutto senza farmi notare, senza pubblicizzare l’intrusione.
Il manuale di psicologia spicciola scritto da “noartri” ed edito dalla casa editrice “luoghi comuni s.r.l.” la definirebbe narcisista.
I pantaloni maculati di colore nero su sfondo nero portati senza alcun sostegno disegnano il corpo privo di imperfezioni, ma necessitano ad ogni movimento di essere sostenuti o rimessi al loro posto.
Un’operazione da fare esclusivamente in piedi in cui le ore passate in palestra sono ben rappresentate, ma preferisco fermarmi qui con la descrizione del movimento, rimango pur sempre un gentiluomo.
Sulla testa una coroncina dal lungo pelo verde, senza alcuna utilità  pratica, ma indubbio quello di richiamare l’attenzione.
Le unghie curate, disegnate, ornate, ma troppo lunghe per usare agevolmente il telefono.
L’aggeggio elettronico mai abbandonato è protetto da una cover, sulla quale è stampata una foto del suo viso abbronzato con sfondo il mare azzurro cornice delle vacanze estive appena superate.
Sullo schermo scorrono gallerie zeppe di autoscatti (lo so adesso va di moda dire selfie ma volete mettere il piacere di usare una parola in italiano), social in cui l’unico soggetto è se stessa, chat usate esclusivamente per trasmettere brevi video di lei in primo piano.
Avete ragione forse sono troppo duro con questa giovane ragazza, in fin dei conti ha il viso pulito e alla sua età  deve ancora completare di riempire la scatola personale di sicurezza di se, svuotandola preventivamente dalle fragilità .
Come non detto.
Ha appena finito di truccarsi, si è scattata l’ennesima foto e l’ha inviata a due ragazzi differenti ma con lo stesso testo:
“amore non vedo l’ora di vederti, sto arrivando”.
Chissà  se passerà  il natale con la propria famiglia, sicuramente parte del tempo sarà  occupata a scartare regali.
Dietro la narcisista è seduta una donna giovane, non ho idea di quale lavoro possa fare, non ha segni distintivi, ma sta passando un periodo duro.
Si trova nella fase in cui la vita ti mette alla prova, ti regala, ed essendo natale non poteva scegliere periodo migliore, la sofferenza dell’anima legata all’amore.
Legge: “Se fa male non è amore autrice Montse Barderi”.
No, non è una lettura usata per occupare il tempo.
Il segnalibro, un biglietto prestampato con su scritto “buon natale mamma”, si trova oltre la metà , le pagine le rilegge più volte, sembra volerle studiare, memorizzare.
Indossa un pantalone troppo comodo per essere elegante e la felpa larga nasconde la visibilità  di qualsiasi forma corporea possa celarsi sotto di lei.
Il colore è unico: nero.
I capelli lunghi sono raccolti alla rinfusa, il viso struccato tradisce notti passate insonni ad ascoltare i brani più tristi mai scritti con l’intento di non schivare il dolore, ma di passarci dentro per anestetizzarlo.
Gli occhi e i lati delle labbra disegnano curve verso il basso mentre deglutisce qualche liquido immaginario.
Avrei voglia di abbracciarla per regalarle qualche istante di calore umano, ma questo oggi non succederà .
Tre persone, così diverse, hanno un denominatore comune fra di loro e con il resto del gruppo di cui anche io faccio parte: passare il natale lontani dalla quotidianità  di tutti i giorni.
Natale.
Cosa sarà  mai il natale se non un giorno come un altro, ma con qualche variante.
Un giorno in cui non si lavora e si mangia seduti attorno a tavoli allungati per l’occasione.
Un giorno dalle strade sgombre, senza traffico e senza fretta.
Natale è un pretesto, una motivazione.
Lo stratagemma per andare a trovare genitori, parenti o amici che normalmente non si ha mai il tempo di vedere.
La scusa per farsi regali, per essere costretti a trasformare le parole in fatti.
Natale è l’attenuante generica usata per azzerare tutti quei “ti voglio bene” accumulati nella mente e non spediti al giusto indirizzo.
Abbiamo bisogno di una motivazione, di una convenzione per riabbracciare le persone importanti.
Natale è un coordinatore eccellente; riesce a muovere masse di persone, merci e sentimenti senza dissipare energie.
Natale è anche il giorno di massima ipocrisia, di sorrisi buttati qua e la solo perché si è “tutti più buoni”.
Natale è un amplificatore.
Amplifica vuoti e crepacci, trasforma il nero in nero profondo, costringe, fermando tutti e estraendoli dalla routine di tutti i giorni, a guardarsi nello specchio che riflette le vesti logore indossate dalla propria pace interiore.
Natale è un bullo, a volte fa finta di non vederti, altre ti colpisce in pieno viso senza usarti la cortesia di ripagarti per sdebitarsi.
Buon natale.

Conoscenza

Il caldo tepore estivo riscaldava l’aria circostante.
L’assenza di nuvole metteva in risalto la luce brillante della luna, impegnata a provare il vestito elegante che avrebbe indossato il giorno di massimo splendore.
Una miriade di piccoli frammenti brillanti, provenienti da quella luna, continuavano a tuffarsi nelle acque immobili del grande specchio d’acqua adagiato pochi metri più in basso.
Il profumo dei fiori sbocciati da pochi giorni riempiva i polmoni cullando lo spirito.
Al lato, una fila ordinata di alberi dalla grande chioma.
Chiome ricolme di foglie vestite con un mantello verde smeraldo.
Avevano un compito da svolgere: provvedere alla sicurezza del posto.
Sembravano un piccolo esercito silenzioso di soldati in grande uniforme, eleganti nella loro formalità .
Sotto di loro una panchina – legno marrone – ed io seduto a concedermi un momento di pace, silenzio, relax.
Da quella posizione riuscivo a scorgere davanti a me un piccolo muricciolo, un trampolino sulle acque del lago.
A rallegrare, rompendo il silenzio del momento, una famiglia di paperotti parlottanti.
In testa mamma papera, a seguire i giovani e disciplinati figlioletti, tenerissimi nei loro goffi movimenti esercitati ancora troppo poco.
Ad interrompere quella quiete, qualche minuto più tardi, due bambini.
Arrivati correndo dal lato opposto al mio.
Il loro traguardo sarebbe stato quel muricciolo, usato al termine della gara come panchina.
Due bimbi come tanti altri.
Lui: visino timido, capelli cortissimi e biondi, se non fosse stato per la giovane età  avrei potuto azzardare quasi argento.
Lei: faccia furbetta, lunghi capelli neri raccolti in una coda disciplinata e qualche anno in meno di lui.
Seduti uno di fronte all’altro, con una gamba poggiata sulla solida pietra e l’altra penzoloni, un escamotage per non rimanere immobili.
Dalla mia posizione di privilegio riuscivo a notare il loro guardarsi negli occhi, ed ascoltare da bravo impiccione la loro conversazione, una scena molto dolce.
“Sei in vacanza?”
“No io abito qui, in quella casa là  in fondo.”
“Io sono in vacanza, con mamma e papà .”
“Quanti anni hai?”
“Dieci.”
“Perché ridi sempre?”
“Perché non mi piace farmi vedere triste.”
“Tu non ridi mai?”
“Solo quando mi diverto.”
Quei due marmocchi hanno continuato il loro scambio di battute con lo scopo di conoscersi fino all’arrivo del gruppetto dei genitori – i disturbatori -.
Come sempre noi adulti abbiamo la capacità  di rovinare i momenti belli dei nostri figli o dei bambini, privandoli giorno dopo giorno della loro naturalezza, semplicità  o ingenuità .
Ristabilita la composizione delle famiglie sono andati via, ognuno per la sua strada.
Mi piace coltivare l’idea di saperli, il giorno dopo o quelli successivi, nuovamente insieme a raccontarsi le loro giovani vite, a giocare insieme, a costruire un’amicizia nata per caso in quel posto a due passi da un lago calmo e sorridente.
Sono ritornato a distanza di mesi su quella panchina.
Nella stagione opposta all’estate.
È tutto cambiato.
Il cielo è così coperto dalle nubi che la luna sembra essersi nascosta dietro una porta d’acciaio impenetrabile.
Gli alberi hanno perso le foglie, non sono riusciti a non farsi colpire dai proiettili del gelo, e infreddoliti attendono l’arrivo della nuova primavera.
Lo specchio d’acqua una volta piatto e sereno ora è in preda ad uno stato di turbamento, rabbia e malinconia continua.
Il profumo ha abdicato il trono in favore di un olezzo irriconoscibile.
La famiglia dei paperotti non si vede in giro, immagino siano abbastanza cresciuti per affrontare la vita in totale autonomia.
Ma soprattutto non ci sono più quei due bambini.
Non so perché ho sperato di trovarli ancora lì, a giocare fra di loro, divertirsi, a passare il tempo con spensieratezza.
Chissà  dove sono, forse a scuola, forse ad allenarsi in qualche sport o a guardare semplicemente i cartoni in TV, ma ognuno occupato con i propri impegni.
Di certo non sono più lì.

A mia figlia

Illustrazione di: Soosh @vskafandre

La prima volta che ti ho vista sembravi un fagottino avvolta in una stretta copertina gialla.
Un pulcino, ma un po’ più grande.
Il visino sereno, gli occhioni aperti a scrutare quel mondo che a breve avresti dovuto affrontare.
Un mondo a volte cattivo, altre meno, ma da vivere.
Ti ho avvolta tra le braccia, ho sentito il tuo profumo, ti ho fissata negli occhi.
Non potevi muoverti, ma sorridevi già .
In quel momento, in quel preciso istante – come un’onda di tsunami – ho compreso cos’è l’amore.
L’amore incondizionato.
L’amore a senso unico.
L’amore donato gratuitamente.
L’amore consapevole di rimanere tale nonostante le sciocchezze inevitabili che farai, nonostante i momenti in cui mi odierai, nonostante non avrai tempo da dedicarmi, nonostante un giorno non sarà  più una tua priorità .
Nonostante tutto, io sarò sempre lì, a tenerti la mano, a sorreggerti, ad amarti.
Perché l’amore incondizionato è così: non necessariamente corrisposto.
Perché l’amore incondizionato è così: non tradisce.
Perché l’amore incondizionato è così: presente, sempre.
E quando l’amore incondizionato giunge nella tua vita comprendi di dover fare un passo indietro.
Un passo indietro per permettere a te, Meli, di guardare avanti avendo la sicurezza di avere le spalle al sicuro.
Per questo, piccola mia, ti assicuro è stato questo il passo indietro più dolce che abbia mai fatto.

La candela

Il sole dopo aver compiuto il suo lavoro quotidiano si è congedato.
Ha lasciato il posto al suo fratello gemello siamese: la notte.
Continuano a rincorrersi senza acciuffarsi quei due, non si sovrappongono, non si infastidiscono l’un l’altro, ma non riescono ad incontrarsi pur essendo legati indissolubilmente.
Il manto di oscurità  regalato dalla notte scurisce l’esterno del mondo e gli ambienti interni delle case.
Le camere, private della luce, assumono tutte la stessa forma, indefinita,  accomunate dall’impossibilità  di distinguerne i confini, dove è infattibile notare i suppellettili; si può persino dimenticare l’oggetto privo di importanza poggiato nell’angolo più remoto del mobile alto al centro della parete.
Ma un luogo comune recita: “perdendo un senso si acuiscono tutti gli altri”.
E dopo una giornata complessa, si sente la necessità  di spegnere qualche senso per dare vigore agli altri o meglio, si può decidere di abbassare il volume di tutti i sensi, solo per riprendere a respirare lentamente.
La necessità  di far emergere dal profondo, far defluire, cacciando via con forza: problemi, malumori, negatività , diventa un’esigenza impellente.
Per questo motivo – rendere i sensi innocui – sul mobile poggiato alla parete opposta del letto si posa una candela, accesa.
Una piccola fiamma capace di dare la quantità  giusta di luce per riscaldare i colori scuri dell’ambiente.
Mai immobile, disegna ombre in continua evoluzione, si inseguono, danzano, giocano tra loro.
Il profumo rilasciato accarezza dolcemente le narici.
Tutto concorre per creare un angolo protetto in cui nulla potrà  depistare il senso di pace ricercato.
E funziona.
La pace arriva, il respiro rallenta, i muscoli si rilassano, la mente smette di correre, l’anima ritrova l’amicizia del cuore.
Così, disteso sul letto, con le mani dietro la nuca, le gambe poggiate una sull’altra, senza nessun rumore in grado di disturbare la quiete creata, ascolti il racconto fatto da quella piccola fiamma.
Pensi a cosa vuole dirti.
Pensi che la sua vita non è poi così diversa dalle vite di tutti.
Lei per vivere, per donare quel senso di pace, deve bruciare, deve usare l’ossigeno, esaurire lo stoppino, consumare la cera.
Quella candela dopo essere nata avrà  a disposizione un tempo finito per vivere, e bello per quanto potrà  essere, dovrà  consumare qualcosa, dovrà  usare ciò che non le appartiene e alla fine si spegnerà , inesorabilmente.
È il racconto della vita.
La differenza si troverà  nel modo in cui avrà  consumato i suoi elementi.
Se bruciando avrà  regalato pace, armonia, serenità  allora non sarà  stata una candela sprecata.
Così come una vita non sarà  stata sprecata se sarà  stata vissuta senza sprecare il bello donato da ogni singolo giorno.
Perchè ogni giorno qualcosa di bello serve trovarlo, altrimenti accendere una candela sarà  stato solo tempo perso.

Pensieri e parole

La comodità  di non chiudere occhio è quella di dare spazio ai pensieri in totale libertà .
Potranno essere pensieri frivoli, delicati, sconci, profondi, ma saranno comunque pensieri liberi e il più delle volte ingombranti.
Hanno un difetto i pensieri: sono inconsistenti, immateriali, circoscritti.
Sono racchiusi nel loro bel recinto d’oro rinforzato, galoppano, saltano, compiono mille evoluzioni, ma rimangono chiusi lì incapaci di oltrepassare la linea che li separa dalla realtà .
Hanno anche dei pregi, ti permettono di accrescere l’ego: 
“domattina farò questo e quello…”;
ti permettono di trovare il coraggio che normalmente manca: 
“domattina gliene dirò quattro…”;
ti permettono di pianificare strategie da far invidia ai più grandi Generali:
“domattina se succede ciò risponderò con questa azione inaspettata da tutti…”;
ma ahimè essendo pensieri, solo pensieri, perderanno di valore con le prime luci dell’alba.
Un po’ come i sogni, aperti gli occhi ci si dimentica il più delle volte di aver sognato, di aver vissuto una seconda vita mentre le palpebre chiuse, al buio, ci proteggevano dalla realtà .
Forse sogni e pensieri fanno parte della stessa famiglia.
Forse sono addirittura fratello e sorella.
E forse non sono neanche soli, perché potrebbero avere un altro fratello o sorella:
le parole.
In effetti nel momento in cui le parole si comportano come i pensieri o come i sogni – svanire al mattino, perdere di valore a fine giornata, dimenticarle – non sono altro che sogni o pensieri.
Un modo diverso di rappresentare la stessa identica cosa: inconsistenza, immaterialità .
Sono sinonimi, fratelli, figli degli stessi genitori.
Eh già .
Ma se pensieri e sogni rimangono all’interno della nostra testa e non possono provocare danni, le parole quando investono gli altri ci identificano, ci disegnano, ci collocano all’interno della società  come soggetti affidabili o meno.
Se affidiamo le parole a qualcuno come fossero dei pegni senza riscattarle con i fatti, avranno perso le parole di valore e noi di credibilità .
Le parole, se rimangono vuote, non sono altro che foglie secche portate dal vento, puoi vederle, sentirle, ma se cerchi di acciuffarle ti sfuggiranno dalle mani o si ridurranno in mille pezzi lasciandoti solo l’amarezza di averci provato e l’illusione di averci creduto.
Perché alla fine potremo pensare, sognare, raccontare, ma prima o poi dovremo vivere, e se viviamo in un modo raccontandolo in un altro, beh, signori miei avremo sbagliato tutto.

L’auto

L’auto è una piccola fortezza.
Un mezzo con la forza di portarti lontano dai pericoli, di farti scappare dai problemi o di portarti sui problemi per farteli affrontare con più determinazione.
Un luogo sicuro in cui rintanarsi quando se ne sente l’esigenza.
Sei consapevole non appena lo sportello è chiuso, di essere solo ma in buona compagnia (non sempre) di se stessi, dei propri pensieri.
È un luogo magico l’abitacolo della propria vettura.
Uno dei pochi posti in cui si potrebbe quasi dire: “sono a casa”.
Riconosci ogni oggetto al suo interno.
Ad un occhio disattento, quegli oggetti possono sembrare abbandonati lì per caso, ma in realtà  ci sono per un motivo preciso.
Un motivo conosciuto solo da te.
Tu solo sai perché hai deciso di promuoverli come prodotti indispensabili da avere a vista d’occhio, da poter afferrare con un solo gesto della mano.
La notte o mentre piove sono i due momenti ideali per starsene su quel sedile, almeno per me.
Momenti entrambi capaci di oscurare la luce esterna annebbiarla, per lasciare la mente libera di frugare nel pozzo delle proprie sensazioni.
Tutto sembra disegnato, progettato per creare l’atmosfera giusta per invertire il flusso delle emozioni.
Invece di riceverle dall’esterno (a volte subirle) lasciare che defluiscano dall’interno, quasi per liberarsene.
Così questa mattina.
Piccole gocce di pioggia rimbalzano senza sosta sul vetro.
Disegnano minuscoli poligoni informi, regalano la sensazione di offuscamento, deformano i contorni del mondo esterno, tratteggiano piegando senza rispetto i fasci luminosi delle luci artificiali.
La strada al lato scorre come tanti piccoli fermi immagini, brevi momenti della durata di un attimo, un lungometraggio senza audio, ma chiaro da interpretare – tutti occupati a proteggersi, coprirsi, non mostrarsi. –
Così fa il papà  con in braccio il proprio figlioletto per ripararlo dal freddo.
Così fa la coppia di vecchietti mano nella mano attenti ad aiutarsi a vicenda nell’attraversare la strada con quel tempaccio arrabbiato.
Nel frattempo, all’interno della macchina Renato Zero canta: “Non cancellate il mio mondo”.
Il tempo scorre lento o l’impressione dello scorrere è svogliato, ovattato.
Le premesse per un momento di pura malinconia sembrano esserci tutte, sembra il set perfetto per sfogare momenti nostalgici.
La piccola voce interiore dice la sua: 
“dai sfogati, piangi, disperati, richiama alla mente i ricordi più belli e usali come cilicio contro di te, vedrai ti sentirai meglio.”
A volte è meglio non ascoltarla quella voce, ha lo scopo unico di accelerare la zattera in balia del vortice diretto verso il buco nero al centro della tristezza.
Ma fortunatamente non è sempre così.
Perché quella fortezza in cui ti trovi, la minuscola casa mobile trasformata a tua somiglianza ha lo scopo di ricordarti di essere al sicuro, protetto.
Trovarsi al riparo dalla pioggia, dargli le sembianze di piccoli dipinti mobili, avere l’accompagnamento di melodie sempre diverse è un modo per convincersi che:
“qualunque cosa accada fuori, lì dentro si è al sicuro, si è protetti, si è al caldo, ci si trova nel posto disegnato da noi stessi per essere più vicini al nostro essere sereni”.
Perché tutti hanno momenti in cui inaspettatamente ci si trova a veder comparire all’improvviso, senza premesse, la trama di un film horror, ma in quei casi bisognerebbe avere la forza di entrare in macchina, accendere la radio e farsi un giro per la città , non per scappare, ma per sentirsi al sicuro.
Per sentirsi a casa.

La mancanza

Casa vuota.
L’orologio, alto sulla parete, controlla da bravo cane da guardia lo spazio attorno. 
Il suo ticchettio è l’unica melodia, continua e incessante, capace di tenere alta l’attenzione di chi capita sotto il suo tiro.
È un maestro nel rompere il silenzio.
Silenzio amplificato dalle lancette incapaci di fermarsi, in corsa, sempre.
Il vuoto della stanza riempie ogni centimetro, ogni molecola d’aria, poggiandosi crudelmente sulla pelle.
Si percepisce, forte come un urlo di terrore, la sensazione di assenza.
Dicono chiamarsi mancanza.
È inevitabile.
Nasciamo con l’istinto primordiale di ribellarci all’abbandono.
I piccoli piangono cercando di riconquistare il porto sicuro tra le braccia dei genitori.
Per loro la mancanza di quel calore, di quel profumo equivale a rischiare la vita.
E’ dentro di noi, possiamo far finta non esista o possiamo convincerci di poterla gestire, ma è solo un illusione.
E nonostante questo, quando si ha la fortuna di scontrarsi contro qualcosa di bello, inimmaginabile, insperato, quella illusione può solo farsi da parte.
Lasciare il posto alla consapevolezza: disarmati nei confronti della mancanza.
Mancanza amplificata dal silenzio della stanza.
Mancanza amplificata dal beffardo gioco dei ricordi con l’unico compito di far bruciare la pelle.
Ti ritrovi dritto negli occhi il suono del suo sorriso: accecante.
Ti ritrovi ad ascoltare il bagliore della sua risata: calda.
Ti ritrovi a percepire sulla pelle il profumo del suo essere: unico.
Un insieme di così tante piccole bellezze da creare una meraviglia nel corpo di una donna.
E davanti a tutto questo non si può rimanere indifferenti, non ci si può non comportare come i piccoli privati delle braccia dei genitori.
No, nel momento in cui tutta quella bellezza non è più sotto gli occhi, a portata di mano, troppo lontana da non percepirne più il profumo, non si può non sentirne la mancanza.
Non si può non sentirsi smarriti.
Non si può non voler averla ancora lì davanti per rimanerne abbagliati, sempre, ogni volta di più.
No, non si può.

L’autunno

Ventitré settembre duemiladiciannove, nove e cinquanta, lunedì mattina.
Gli astronomi dicono sia stato il momento preciso in cui l’equinozio d’autunno è arrivato ed ha scalzato l’estate.
Come un treno merci in corsa colmo all’inverosimile l’ha colpita frontalmente, l’estate ormai morente, e l’ha scaraventata lontano.
Persa in chissà  quale discarica o profondo pozzo.
Senza alcun rispetto, privo di un minimo di delicatezza, cortesia, incurante di qualsiasi norma sulle buone maniere, l’autunno ha preso il posto dell’estate in barba a tutto quello cui abbia potuto regalare, donare o concedere fino a qualche ora prima.
Un bullo di periferia dallo sguardo torvo.
Ti addormenti con gli occhi pieni di luce, il tepore sulla pelle, la pace nelle orecchie e ti risvegli con un pugno nello stomaco: strattonato all’improvviso in piena notte.
Apri gli occhi senza vedere quasi nulla.
Li stropicci pensando di essere ancora addormentato: “forse conviene lavarsi il viso”.
Spalanchi ogni finestra sperando essere solo un brutto film: quello presentato questa mattina.
Invece no, nulla.
E’ tutto vero.
Tutto è stato trasformato, ancora, un’altra volta, ciclicamente, senza stancarsi mai.
Dove prima c’erano secchiate di colori ora non c’è più nulla.
Dove prima la vista non riusciva a mettere a fuoco pezzi di natura tanto distanti, ma nitidi, ora tutto è mutato, nascosto.
Una valanga di grigi ha coperto ogni dettaglio.
Ci si ritrova a dover distinguere toni diversi di uno stesso colore.
L’azzurro del cielo, sostituito nel momento di massima luce, da un tenue grigio chiaro.
Interi boschi nascosti da bui nuvoloni grigio scuri: quasi neri.
La vista totalmente oscurata da un mantello con l’ingiusta capacità  di rendere tutto uguale.
E se tutto questo non fosse abbastanza, l’inizio della nascente stagione ha deciso di voler lasciare il segno nei ricordi, strafare, aggiungendo anche la pioggia.
Una perfezionista, nella sua totale mancanza di empatia.
Un paesaggio quasi bieco, triste, monotono, annacquato. 
Anche la gente è stata contagiata: ora chiusa nelle spalle e nei pensieri, lo sguardo basso, coperta da strati di indumenti caldi a proteggere e confortare.
Si cerca nel tepore artificiale, quella mano sulla spalla capace di rincuorare e promettere l’arrivo di una nuova estate, dove tutto è più semplice, facile e a fuoco.
Si cerca, rovistando nei ricordi appena consolidati, le emozioni frutto di tanta spensieratezza:  ora abbandonate dietro la porta, al freddo.
Ma il pugno in faccia scagliato da questo nuovo inizio, l’autunno, con lo scopo di riportare tutti nella più viva quotidianità , dopo i bagordi estivi, ha un pregio.
Il pregio di nascondere, mascherare, appena passata la forza e la voglia di volersi imporre, i nuovi colori caldi: una marea di giallo, arancione, marrone nascosti dietro l’angolo o sotto ogni pietra.
Il pregio di regalare boschi variopinti da foglie fluttuanti e colorate capaci di riscaldare gli animi con la bellezza della vista.
Un dipinto differente da notare solo voltando lo sguardo in direzioni diverse.
Il pregio di riuscire a rammentare l’esistenza della bellezza nonostante sia stata preceduta dalla cupezza del monotono grigio.
Il pregio di riuscire a trasformare se stesso da brutto anatroccolo a splendido cigno nel pieno della sua maestosità .
Perché è così: nulla è davvero brutto, nero, cattivo e incapace di cambiare – sempre. –
O forse si?

1 + 1 = 1

Riprendere la quotidianità  dopo aver trascorso le meritate – solo per alcuni – giornate di vacanze ha i suoi pregi.
Ci si ritrova a riempire nuovamente i viottoli svuotati dal caldo.
Grandi deserti lasciati in balia di coraggiosi animali – privi di alcun padrone – si trasformano nuovamente in floride piazze rigogliose di persone pronte a calpestarne ogni centimetro.
Tutto viene rinnovato, tutto ricomincia, tutto riprende forma.
La fine dell’estate assomiglia ad un nuovo inizio: una sorta di capodanno a settembre.
Il momento in cui si guarda dietro le proprie spalle e si tiranno le somme.
Chissà  perché, di tanto in tanto, sentiamo la necessità  di fare il punto della situazione, verificare se i piani fatti fino a quel momento sono stati rispettati oppure qualcosa è andato in modo diverso – non necessariamente storto – a volte meglio del previsto.
Si ripercorrono con la mente le giornate calde appena consumate, usate, anche vissute.
Periodo – quello estivo – abile nel regalare momenti euforici o al contrario totalmente abissanti, ma incapace di rimanere immobile; incapace di quell’anonimato tanto sbandierato dalle altre stagioni.
Immerse in una via del centro, confuse tra uno stuolo di anime irrequiete, due donne: una zia con la piccola nipotina.
Una ragazza giovane, minuta, con lunghi capelli neri sfumati da punte color mogano.
L’incedere elegante stretta nelle piccole spalle, il viso furbo illuminato dai suoi occhi azzurri: pronti a cogliere ogni sfumatura proveniente dal mondo circostante, ma soprattutto dal piccolo satellite – tenuto per mano – in grado di rallentarne l’andatura.
“Zia, ma uno più uno fa uno?”
“A volte sì amore”
“Perché non sempre?”
“Perché se a sommarsi sono persone da due ne viene fuori un’altra – nuova. -“
La piccola bimba bionda, dai grandi occhioni neri neri, il viso paffuto e perplesso volgendo lo sguardo interrogativo verso l’oracolo alla sua sinistra, dopo un momento di incertezza è scoppiata in un incontenibile risata.
Quella risposta inaspettata e totalmente fuori portata per una piccola donnina appena affacciata alla vita, le sarà  sembrata una battuta di spirito, tanto da non riuscire a placare l’ilarità  scaturita da quella affermazione.
“Zia, ma cosa stai dicendo… hahahaha” e con la sfrontatezza dell’ingenuità :
“non capisci proprio niente, la nonna lo sa, lo chiedo a lei.”
Non so perché quella normale coppia avesse attirato la mia attenzione, e non so cosa stesse pensando la giovane ragazza per aver dato d’impulso quella risposta.
Aver affidato ad una bambina una affermazione così romantica, dalle mille sfaccettature e con miriadi di interpretazioni diverse è stata una bella scoperta.
In un periodo in cui tutto è dato per scontato, dove i rapporti umani sono coltivati – per fortuna non sempre – su campi aridi, dove l’altruismo è merce rara e vista con occhi diffidenti, ascoltare qualcosa di poco prevedibile – ma bello – mi ha lasciato il piacere di sperare e la consapevolezza di ringraziare.
Ringraziare il presente.
Sperare nel futuro.